di GIROLAMO DE MICHELE.

1. “L’inconscio ha ancora qualcosa da dirci?”, si chiedeva Félix Guattari introducendo L’inconscio macchinico, alle soglie degli anni Ottanta: in un’epoca nella quale “il passato rimane gravoso e freddo, e il futuro largamente ipotecato da un presente legato da ogni parte”. Fermo restando che “Si ha l’inconscio che ci si merita!”, la quarta stagione di Stranger Things sembra contenere alcuni elementi per una risposta affermativa alla questione.

Quest’ultima stagione (in attesa della conclusiva) ha reiterato, affinandoli e implementandoli, gli elementi narrativi che ne avevano decretato il successo. Il primo è l’esistenza di un’altra realtà sottostante la cittadina di Hawkins, il Sottosopra (“the Upside Down”) non distinta, ma integrata al reale soprastante, in grado di penetrarvi attraverso confini porosi. Il secondo è l’ambientazione nella prima metà degli anni Ottanta, con un intenzionale lavoro di citazioni di immagini, frame narrativi, oggettistica. E soprattutto canzoni, per le quali vale l’effetto-nostalgia indotto dalla riproposizione di una vecchia canzone del passato poco nota nel presente: potremmo chiamarlo Effetto Play It Again, Sam. Con la differenza che qui la poca notorietà è data dal passare del tempo e dal mutare degli stili musicali, che fanno cadere in un apparente dimenticatoio anche i successi della generazione precedente. Si aggiunga che il successo di ST4 ha rafforzato la presenza del genere fantascientifico (nella sua variante da tempo prevalente, la distopia) nelle preferenze dei fruitori di serie.

2. Nelle stagioni precedenti, le canzoni Eighties erano prevalentemente delle clip (tipo il ritornello di Should I Stay or Should I go). In ST4 c’è stato un salto di qualità, con effetti forse imprevisti: l’uso narrativo esteso della hit del 1985 di Kate Bush, Running Up That Hill, integrata nella trama. Il contrasto originario fra la melodia pop (un pop “alto”, con echi psichedelici: non a caso il mentore, prima ancora che produttore e occasionalmente chitarrista, di Kate Bush è David Gilmour) e la drammaticità del testo (il sottotitolo è A Deal with God) viene messo a valore nelle peripezie di Max – fino all’esito momentaneo che chiude la stagione.

La canzone è balzata in testa alle charts, piombando come un ricordo rimosso su una generazione di spettatori che non la conosceva: a cascata, sono state redatte nel mondo social delle compilation di quasi tutte (attenzione!) le canzoni contenute in ST4, rafforzando l’effetto-anni Ottanta della serie. Questa eccezionale ricezione estetica di un prodotto di 40 anni or sono fa segno a una peculiare forma di nostalgia, che Simon Reynolds ha denominato “retromania”, e Mark Fisher, con una più ampia accezione, “nostalgia di un futuro mancato”, in contraddicente relazione con la percezione di mancanza di alternative (TINA: There Is No Alternative). Ma si tenga presente quanto diceva Antonio Caronia, in una tavola rotonda sulla fantascienza, già nel 1992:

Oggi né passato né futuro sembrano più essere presenti al sentire collettivo: tutto è già stato non solo pensato e agito, ma sentito. Il futuro ci è crollato addosso, si sta già realizzando ora: non solo, ma questo non è «il futuro», sono già i cento, mille, possibili futuri ognuno dei quali trova, nella complessità e nella segmentazione sempre maggiore della società postindustriale, un suo spazio di realizzazione e di coesistenza accanto ad altri. Trovo straordinario che la fantascienza (o meglio, alcuni autori) abbiano intravisto questo processo fin dagli anni Sessanta.

3. La nostalgia di un futuro mancato è, per Mark Fisher, ciò che si esprime in produzioni artistiche che retroagiscono sul passato, producendone versioni alternative, dalle quali deriverebbe un futuro difforme da quello atteso: ovvero, manifestazione del desiderio di un diverso presente non inchiodato sul TINA, dunque desiderio di un possibile futuro altro. Si tenga presente che i Duffer Brothers, gli autori di Stranger Things, in precedenza avevano partecipato alla realizzazione di Wayward Pines, una serie che metteva a tema il TINA.

Stranger Things ha dunque la capacità di rompere il muro degli anni Ottanta, per mostrarli come l’origine dell’attuale presente che, legato e gravato dal passato, ipoteca il futuro. Dietro la falsa memoria patinata di anni nei quali, più o meno contemporaneamente, il post-punk falliva nell’articolare il potenziale di quel post e rifluiva nel pop, e i minatori britannici venivano brutalmente sconfitti ed espulsi dal proprio mondo (non è un caso che proprio lì prende l’avvio la saga di Mark Renton e Sick Boy, nella quadrilogia del Trainspotting), mentre i brani musicali di successo venivano incisi direttamente nelle botteghe dei parrucchieri di Sheffield. Gli Eighties erano popolati da mostri, materiali e psichici: in ogni caso mostri reali. Individuarli, dar loro un nome, e sconfiggerli è la condizione indispensabile per creare un mondo nel quale quei mostri non sono più possibili. In altri termini, Stranger Things mette a tema l’Effetto Afterhours: Non si esce vivi dagli anni Ottanta. “Il tempo va dal passato verso giorni migliori, oppure si precipita, alla cieca, verso insondabili catastrofi” (Guattari, ancora): si tratta, insomma, di “pensare il tempo contropelo”. Peraltro, anche la parte più debole della serie – gli ultimi anni della Guerra Fredda – finisce col mostrare che fra la “sovietica” politica di controllo repressivo e la “americana” messa in studio per intuibili possibili valorizzazioni delle mostruosità disturbanti, alla fine la differenza sfuma fino all’impercepibilità.

4. Questo spazzolamento contropelo del tempo (in un appunto, Benjamin chiariva che il senso di questo citatissimo e abusatissimo aforisma era di portare alla luce i pidocchi nascosti nel manto del cavallo) è impensabile senza ripercorrere il decennio mostruoso in cui è ambientato ST4. Ancora con le parole di Antonio Caronia:

Bisogna guardare ai mutamenti sociali venuti a maturazione nello straordinario decennio degli anni Ottanta: la diffusione di un’angoscia planetaria per la sovrappopolazione e il degrado dell’ambiente; l’acuirsi della forbice tra Nord e Sud del mondo e il realizzarsi di una «rivoluzione» del terzo mondo rovesciata rispetto alle previsioni dei marxisti ma non per questo meno sconvolgente, quella dell’emigrazione; il crollo del sistema del «socialismo reale» e la fine, con la crisi del comunismo, di tutte le utopie; l’intrecciarsi schizofrenico fra l’emergere di una cultura integrata su scala planetaria, che chiederebbe anche un governo sovranazionale, mondiale, dei processi, e lo scatenarsi anche sanguinoso dei particolarismi, dei localismi, dei tribalismi, con l’immancabile e triste codazzo delle xenofobie e delle infamie antisemite. In questo quadro si comprende chiaramente che è la stessa nozione di «futuro», una nozione chiave della modernità, sulla quale si basava in larghissima misura la fantascienza, a dissolversi.

Se cito con insistenza questo seminale intervento di Caronia, è perché in quella tavola rotonda del 1992 Caronia poneva con chiarezza una questione determinante per la comprensione di cos’è l’immaginario contemporaneo: dove per immaginario intendeva la concatenazione fra “il sistema di attese dei lettori, che è ciò che storicamente determina i generi e le loro caratteristiche”, e “i concreti modi di produzione culturale di una data epoca”. La fantascienza appariva a Caronia come “quella forma di narrativa popolare che elabora l’esigenza di fiction collegata al nuovo ruolo della scienza nel sistema concettuale occidentale e della tecnologia nella vita quotidiana”. Perché “fantastico e immaginario tecnologico non sono due cose sostanzialmente diverse che vanno collegate: la fantascienza nasce proprio perché la scienza e la tecnica hanno un certo ruolo, e questo ruolo è percepito dall’uomo comune (o da certi strati dell’uomo comune) come parte della sua vita e come generatore di bisogni immaginari”. La fantascienza ha, storicamente, la capacità di pensare in modo non univoco la tecnologia, cogliendone i possibili all’interno del reale; di sottrarre la riflessione sulla modernità al significante simbolico del capitale, senza ricadere nel dualismo razionale/irrazionale (che è anch’esso sottomesso al significante dispotico). La novità della fantascienza che oggi si esprime soprattutto nell’immaginario visuale (cinema, serie televisive) è la capacità di coniugare il fantastico non solo con la tecnologia (il che ha facilitato il fraintendimento della scienza tout court come tecnologia: e se ci era cascato uno come Heidegger…), ma anche con la scienza come teoria. Penso, per fare due esempi, a Sense8 (e non solo) delle sorelle Wachowski, ma soprattutto a una serie di grande e inatteso successo, Dark, che è stata percepita come di difficile comprensione, per la semplice ragione che la sua trama prendeva sul serio la concezione relativistica del tempo, invece di svolgersi nella classica sequenza passato-presente-futuro (o rifugiarsi nello stratagemma di riversare nell’oscurità della trama lo smarrimento della propria comprensione epistemologica, facendo l’occhiolino alla mutua incapacità di capirci un’acca di spettatrici e spettatori supposte ignoranti: un trucco di cui è maestro il sopravalutato Christopher Nolan).

L’inquietudine suscitata dalla difficoltà di comprensione nello spettatore (non solo in Dark) è indice di un aspetto del tempo presente: la percezione di sé come collocata all’interno di un contesto del quale sfuggono i confini e le dinamiche. Una percezione disturbante, che esprime un’oscura consapevolezza della colonizzazione del nostro esistere dalla macchina manageriale degli algoritmi.

5. L’ultimo tema di Stranger Things è quello del Sottosopra. Inutile fingere di non vedere il rinoceronte sotto il tavolo: si tratta di una scoperta metafora dell’inconscio, e neanche delle versioni più radicali, ma di quella classica di Freud. Il Down di Hawkins è un ricettacolo oscuro nel quale sono nascosti i mostri dell’Upside; dal quale i mostri possono filtrare in superficie, o nel quale si può precipitare e rimanere imprigionati, con conseguenze permanenti anche nel caso il prigioniero non perda la vita e riesca a tornare in superficie (scoperta allusione ai temi della follia e della psicosi). Basterebbe la conclusione “edipica” del rapporto padre/figlia fra Undici (Millie Bobby Brown) e il dottor Brenner (Mattew Modine) ad attestarlo. Nondimeno, qui sembra esprimersi una concezione normativa e disciplinante dell’inconscio: quelle mostruosità che esso racchiude è bene che siano ablate dal reale razionale e rinchiuse, ed è bene che restino lì. Il che sembra andar contro certe rappresentazioni “accoglienti” dell’inconscio: “Accogliere il logos dell’inconscio significa allargare la nostra nozione di identità in modo tale che comprenda e non escluda l’alterità del desiderio […]. La lezione dell’inconscio è sempre una lezione di umiltà, di indebolimento dell’identità. Il narcisismo e l’aggressività dell’Io vengono ridimensionate perché l’Io deve riconoscersi innanzitutto non padrone in casa propria”, scriveva Massimo Recalcati (“Ma chi mi credo di essere”, Robinson 31.12.2017). Lo psicanalista mainstream inserisce questa tutto sommato rassicurante visione dell’inconscio in un quadro concettuale presidiato dalla necessità di un nóstos della figura paterna a salvaguardia e moderazione del soggetto affetto dal presunto “complesso di Telemaco”: un quadro psicanalitico che si trasforma in categorie a priori attraverso le quali leggere ogni aspetto del reale – soprattutto, quelli politici. Così Recalcati può usare la categoria (metafisica) dei “giovani” in positivo, se ascoltano la voce del padre severo ma giusto (“Caro Pd, parla ai giovani. Sono loro i migliori alleati”, Repubblica, 23 luglio 2022), o inguaribili adolescenti (“M5S, adolescenti inguaribili”, Repubblica, 16 luglio 2022).

Ci sarebbero dunque due letture dell’inconscio, una oscura e una luminosa?

Piccola digressione: nel 1984 (l’anno dei minatori inglesi, della svolta pop del post-punk, del divenire-skagboy di Mark Renton), ebbe un fugace ma intenso successo una serie televisiva, Visitors, malfatta e poco originale, ma che nel ri-proporre l’alieno cattivo (rettiliano) nemico dell’umanità dava espressione non solo alla pancia reaganiana e thatcheriana, ma anche al rigetto del  “buon” alieno bambino da accudire, lo spielbergiano E.T.: una sorta di gattino verde, contrapposto al lucertolone mascherato contro il quale c’è solo da impugnare il fucile e sparare per primi.

Torniamo alle due letture dell’inconscio: dove ambedue falliscono, è nel presupporre che l’inconscio sia qualcosa di universale che sta lì, in eterno – pieno di mostri o di opportunità, poco importa. Nel non capire che l’inconscio è tanto produttore quanto prodotto. Che non ha un luogo, piuttosto un territorio; che non sta, ma, con Guattari, “gironzola un po’ ovunque intorno a noi, nei gesti, e fra gli oggetti quotidiani, così come in televisione, nello spirito del tempo e anche, e forse soprattutto, nei grandi problemi del presente”. Che contiene non archetipi eterni o universali a priori, ma macchine produttive che attraversano, dall’interno come all’esterno del soggetto presunto reale, diversi livelli di realtà. Cosa che il finale di ST4, con la rivelazione della genesi del Mind Flyer-001, esprime molto bene: persino l’inconscio è quel che è divenuto (in ogni caso, tanto gli adolescenti quanto i genitori di ST4 non sembrano aver letto Recalcati).

La questione diventa allora: perché hanno tanta popolarità serie che propongono una produzione non rassicurante e non domesticabile né normalizzabile del mostruoso – da Harry Potter al Game of Thrones, per dire? Torniamo alla metafora, potentissima, del Sottosopra: con una lettura diversa da quella psicanalitica, ho usato più volte (ad es. qui e qui) questa immagine simbolica per descrivere “la coesistenza fra un capitalismo basato su intelligenze e linguaggi artificiali, algoritmi, messa a valore di stili di vita e relazioni umane, creazione di reti e piattaforme connettive; e un capitalismo che trae valore da forme sempre più sofisticate e violente di controllo sociale, di frammentazione dei tempi lavorativi, di catene sempre più lunghe della logistica”. Voglio dire che le produzioni inconsce mostruose, piuttosto che rassicuranti, fanno segno a un mondo mostruoso, le cui segmentazioni attraversano tanto ciò che è là fuori (cioè nel sociale), quanto ciò che è qua dentro (cioè il viluppo conflittuale di passioni e fluttuazioni che costituiscono quello che chiamiamo Io o Soggetto).

6. ST4 chiude con un cliffhanger, un espediente narrativo ormai consueto (cioè interiorizzato nell’immaginario di spettatrici e spettatori): i flussi dell’Upside Down stanno emergendo nella realtà soprastante, la battaglia appena conclusa non è l’ultima. La sorpresa finale dei Duffer Brothers è oltre la nona puntata: nei titoli di coda. Nell’Interregno in cui la quarta stagione è finita e la quinta ancora non comincia, risuona Spellbound, ballata iconica quanto mai del post-punk, probabilmente il miglior pezzo di Siouxie and the Banshee (per gli amanti della psicoanalisi: Spellbound è il titolo originale del film di Hitchcock noto in Italia come Io ti salverò). L’Interregno fra le due serie, fra il Sottosopra e il Reale, fra i mostri del Mind Flyer e la banda di adolescenti desideranti e di genitori inadempienti post-recalcatiani, è un sabba selvaggio dominato dalle note stridule della Strega per eccellenza degli Eighties.

7. Nel bene e nel male, abbiamo l’inconscio che ci meritiamo. Ma questo inconscio, che non sta né è, ma viene prodotto e produce, contiene anche la nostalgia di un futuro possibile. È una mera eventualità, certo: tal quale l’Uomo di Heidelberg (intendo l’antenato preistorico, non quell’altro) conteneva la virtualità del Sapiens, ma anche del Neanderthal, e fors’anche del Denisoviano (di un altro paio di nostri quasi-fratelli perduti nell’evoluzione non conosciamo la genealogia). Alcuni prodotti dell’immaginario contemporaneo, molto più della dilagante tendenza sentimental-familiaristico-domestica italiana), ci aiutano, oltre che a trascorrere qualche ora in modo piacevole, a cartografare il reale alla ricerca dei punti di appoggio per le nostre leve.

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