Di SANDRO CHIGNOLA

Tra i dati più interessanti ricavabili dall’Osservatorio INPS sull’erogazione dei fondi per Cassa integrazione e guadagni relativi a febbraio 2021 spicca il significativo incremento dei finanziamenti al settore trasporti e logistica. Il che può suonare un poco strano dato l’incremento esponenziale del traffico merci e dei relativi profitti nel corso della sindemia.

Sin dall’inizio del lockdown  (marzo 2020) alla quarantena forzata dei soggetti che potevano essere costretti allo smartworking da casa – con lo relativo sfondamento della giornata lavorativa che una recente ricerca americana ha messo definitivamente in evidenza: https://www.nber.org/system/files/working_papers/w27612/w27612.pdf – è corrisposta la scelta di mantenere la produzione tanto nei settori della metalmeccanica e delle forniture quanto nei settori dei trasporti e della distribuzione senza alcuna preoccupazione per la salute dei lavoratori, delle loro famiglie o di quanti entrassero in contatto con loro.

Sfruttando il silenzio-assenso delle prefetture, la produzione, in particolare al Nord, non si è mai interrotta. E questo è forse ciò che giustifica gli alti livelli di contagio registrati nelle varie «ondate» in questi territori. Ma ancora più significativo è stato il drastico aumento dei volumi di produzione, dei ritmi di lavoro, dei tassi di sfruttamento nei settori della logistica e della distribuzione. L’aumento delle richieste di finanziamento per la cassa integrazione guadagni straordinaria in questi settori non appare particolarmente giustificata, se la si valuta in comparazione con le domande provenienti da altri comparti produttivi (https://www.inps.it/osservatoristatistici/5).

Nel corso dell’ultima settimana una serie di significative mobilitazioni hanno lacerato il velo della narrazione mainstream sulla sindemia. Il 23 marzo si sono bloccati i furgoni dei subappaltanti Amazon nel quadro della ricontrattazione del Contratto nazionale della logistica e dei trasporti. La proposta di Assoespressi, l’ente padronale coinvolto nella trattativa contrattuale con le controparti sindacali (http://www.assoespressi.it), ha proposto, ai fini del rinnovo, una serie di condizioni irricevibili per i lavoratori: 365 giornate lavorative all’anno, 26 domeniche obbligatorie, le prime tre giornate di malattia non retribuite, lo scontato rifiuto dell’articolo 42 che regola la riassunzione dei dipendenti in caso di cambio di appalto e che inceppa il meccanismo di ricatto sul quale ruota l’intera organizzazione del lavoro nella logistica – in particolare nella cosiddetta logistica «dell’ultimo miglio» – e nei servizi.

Al di là delle richieste di Assoespressi, sono le condizioni di lavoro rigide e dettate dall’algoritmo di Amazon quelle che sono state oggetto del rifiuto operaio: una media di 160 pacchi al giorno e una consegna da effettuare in 3 minuti, controllo 24 ore su 24 via gps e telecamera, eventuali multe a carico del trasportatore ripetono sui furgoni i ritmi impossibili e i dispositivi di controllo interni ai magazzini. Ed è per questo che dentro e fuori i essi, da Torino a Roma, da Piacenza a Pisa, da Bologna a Genova, il primo sciopero nazionale in Italia ha colpito l’intera filiera della distribuzione di Amazon.

Non solo Amazon è tuttavia in questione. Sono del 10 marzo le notizie dell’operazione repressiva che ha colpito i lavoratori della Fedex di Piacenza. In occasione di uno sciopero dei primi di febbraio condotto con le pratiche tradizionali del movimento operaio – picchetti e blocchi – era intervenuta con la forza la polizia. Ruvida è stata la risposta dei lavoratori. Due sindacalisti arrestati, fogli di via, perquisizioni e revoca dei permessi di soggiorno per i lavoratori immigrati accusati di aver partecipato agli scontri – una misura che molti di noi sapevano possibile, ma che mai avrebbero messo in conto potesse essere effettivamente applicata –, era stato quanto la magistratura aveva disposto in risposta alle iniziative di lotta. Non si tratta di un caso isolato. Altre misure simili sono state in questi anni adottate nel corso del decennale ciclo di lotte che si sono prodotte negli hubs della logistica.

Il 26 marzo una grossa iniziativa dei sindacati di base è tornata a bloccare i magazzini. Lo sciopero ha riguardato numerose città in Italia, riuscendo a mobilitare tutte quelle figure del delivery – dai facchini, ai trasportatori della logistica, ai riders delle consegne a domicilio – ai quali e alle quali, nel corso della sindemia, si è chiesto di continuare a lavorare senza tuttavia riconoscere loro quelle figure contrattuali – dalla malattia alle ferie, da un monte ore garantito che liberi dal ricatto del cottimo al salario dignitoso – che inquadrano i rapporti di subordinazione nel diritto del lavoro.

Significativo è il fatto che questo sciopero si sia proposto, almeno in alcuni territori, come spazio di convergenza, rispetto ad altre mobilitazioni: quelle della scuola e quella dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo che, nelle settimane precedenti, avevano portato alle occupazioni di teatri e luoghi nei quali fare lezione. In questione, evidentemente, non è la specificità della logistica, ma la centralità del lavoro vivo invisibilizzato, precarizzato e sfruttato che, anche nel contesto della crisi sindemica, ha continuato a produrre e a riprodurre i cicli della valorizzazione capitalistica.

Ci sembra che sia questa la cosa importante. Non è in questione la resilienza, perché dalla crisi non si torna indietro e la normalità cui si vorrebbe tornare resta il problema. Si tratta piuttosto di inaugurare inediti percorsi di intersezione e di confluenza tra percorsi di lotta e processi di soggettivazione che fuoriescano dalla segmentarietà e dalla settorializzazione per rioccupare la scena pubblica e per imporre una comune agenda rivendicativa al cui centro stiano le condizioni di lavoro, un nuovo welfare, la ricerca e la cultura, i diritti del lavoro cognitario e precario.

Su scala globale la crisi sindemica viene usata come una clava per ristrutturare processi produttivi e organizzazione del lavoro. E anche in Italia, fatte salve le caratteristiche di un capitalismo straccione che invece che investire in innovazione, anche in settori ad alta automazione come quelli della logistica, insiste nel fare valore precarizzando il lavoro e incrementandone i ritmi di sfruttamento, questi processi sono in atto. Lo smartworking rappresenta una risorsa che verrà ulteriormente valorizzata ovunque sia possibile con significativi risparmi sui costi e con altrettanto significativi incrementi dell’orario di lavoro – vale per molti comparti: dalla formazione, al terziario, ai servizi pubblici; le risorse per la «digitalizzazione» previsti dal «Recovery plan» saranno ingenti –  e la logistica continuerà ad acquisire centralità sia per quanto riguarda le supply chains globali delle merci (lo dimostra in questi giorni il costo che si sta pagando e che si pagherà per il blocco del canale di Suez) sia per quanto riguarda la distribuzione o le consegne a domicilio.

Che crescano su questo terreno mobilitazioni in grado di porsi in comunicazione con le lotte della scuola, dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo, dei lavoratori e delle lavoratrici della sanità costretti a ritmi e a rischi altrettanto insostenibili e che al centro di queste lotte vengano ponendosi questioni fondamentali che riguardano il reddito, il diritto del lavoro, un nuovo welfare per i precari e per i non garantiti, per alcuni è quanto si tratta di impedire, per altri e per altre la scommessa sulla quale investire.

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