Di MARCO CODEBÒ

Giù in mezzo agli uomini, la biografia di Guido Rossa scritta da Sergio Luzzatto, racconta di un eroe che dall’alto si cala verso i suoi simili laggiù in basso. Nella minuscola sezione della letteratura universale di cui ho conoscenza – l’area romanza più quella anglosassone e alcuni classici tradotti da lingue diverse – storie così sono rarissime. Le esistenze dei grandi personaggi procedono di solito in senso inverso. Costruite sull’archetipo delle Vite dei Santi, salgono dalla terra al cielo, in uno sforzo sovrumano di guadagnare il bene dell’altezza a dispetto di origini umili e a volte peccaminose. È grazie al buon funzionamento di questo modello che le biografie disegnate al contrario sono così rare.

Che io sappia, prima del libro di Luzzatto, di racconti di una discesa sulla terra ne erano stati pubblicati quattro. Uno l’ha scritto un autore di cui porto il nome. È ambientato al tempo dell’Impero, di Augusto prima e Tiberio poi. Dopo una breve emigrazione in Egitto quand’era ancora in fasce, il protagonista del racconto si stabilisce coi genitori a Nazareth, in Galilea, allora sotto il regno di Erode. Se ne va di casa in età già adulta e gira per la regione alla testa di una ben assortita compagnia di viandanti: pescatori, un’ex-prostituta, qualche precario e un ex dipendente dell’Agenzia delle Entrate. Questo qui sarà il primo dei suoi biografi. La vita gli curva verso il tragico un giorno a Gerusalemme, quando proprio uno della sua banda lo consegna alle guardie. Nel giro di qualche ora, dopo un processo farsa, muore crocifisso.

Anche nel racconto di Luzzatto si consuma una svolta drammatica. Succede quando l’eroe denuncia ai carabinieri un collega, da lui sorpreso a disseminare volantini delle Brigate rosse in fabbrica. Processato per direttissima nel giro di pochi giorni, il propagandista viene condannato a quattro anni e mezzo di prigione. Fu collega e non compagno, qui la precisione lessicale è importante. Al secondo ci accomuna qualcosa di decisivo, come nell’etimo (dal latino medievale) companio – onis: “colui che mangia il pane con un altro”. Avevano mai compartito qualcosa di vitale l’eroe di Luzzatto e il collega da lui denunciato? Quasi inesistenti sono le informazioni circa la vita di quest’ultimo. Ma dal contesto storico dei fatti si ricava come sia lui sia l’eroe si siano trovati dalla stessa parte della barricata durante le lotte operaie degli anni sessanta e settanta. Vuol dire decine e decine di scioperi fatti insieme, di solidali decisioni di metter giù gli attrezzi e piantar lì il lavoro. Di non essere pagati per quell’ora o quel giorno pur di unirsi agli altri “nell’eguaglianza delle ore calde”, come ha scritto Giorgio Bocca sulle lotte alla FIAT. Tanti cortei da Cornigliano a De Ferrari, magari uno a fianco dell’altro nella stessa fila; e con tutta probabilità anche picchetti, spalla a spalla davanti ai cancelli. Tutto questo, è chiaro, non ha contato nulla al momento della denuncia. Soluzioni alternative – ammonizione personale o collettiva, invito a riflettere sulle conseguenze (tipo “pensa alla tua famiglia”), richiamo alla comune militanza sindacale, anche minacce e persino percosse – erano possibili. A leggere il racconto degli eventi – consegna nel giro di pochi minuti del sospetto brigatista alla vigilanza di fabbrica e ai carabinieri – l’eroe non prese in considerazione altre scelte, non diede loro neppure il tempo di salirgli alla mente; che a una decisione del genere doveva essere preparata da un pezzo, se, a quanto pare, il denunciato era da un po’ che si trovava nel mirino del sospetto.

L’immediata spiegazione dell’arresto a caldo, sul campo, del reprobo, rimanda alle conflittuali lealtà politiche dei due soggetti coinvolti, militante del Partito comunista il denunciante, delle Brigate rosse il denunciato. Con l’aggiunta che il primo faceva parte della struttura riservata che il Partito Comunista aveva creato per indagare sulle attività sovversive nelle fabbriche. Sarà, ma a me resta invece la convinzione che uno sceso dal cielo non ci riesca proprio mai a mettersi davvero al livello dei bipedi in mezzo a cui si è paracadutato e che insomma finisca sempre per camminargli una spanna sopra. Una postura che viene fuori netta al momento della denuncia, ma riguardava un po’ tutta la vita in fabbrica dell’eroe. Lì, come spiega Luzzatto a pagina centotrentuno, lui non ne aveva di amici. Nella sua vita, quei pochi erano ancora e sempre i compagni di cordata con cui spartiva la montagna. Uno che la prende così l’esistenza, magari potrebbe addirittura, per un po’, mettersi sotto ai suoi simili, per esempio servendogli piatti di trenette o pansöti ai tavoli del Festival dell’Unità. Ma di star sullo stesso piano no, di quello non se ne parla. Come succede nei Promessi Sposi all’erede del cattivo Don Rodrigo, il bravo marchese che aiuta a servire in tavola il pranzo di nozze di Renzo e Lucia, ma non può nemmeno alla lontana pensare di sedersi con loro alla stessa mensa. E tornando a quel giorno in fabbrica, ce lo vedo abbastanza bene l’eroe nella posizione di chi sa di avere poco in comune col collega che si agita un filino più sotto.

Non c’è niente da fare. Se la comunità non c’è uno non se la può dare. E l’assenza di comunità nella storia della denuncia del brigatista in fabbrica si fa sentire due volte. Prima di tutto nella denuncia stessa, che accade appunto per inesistenza del comune, e poi nel modo con cui avviene, col denunciante solo e privo del sostegno di quelli che, per condivisa militanza di partito e sindacato, avrebbero dovuto essere suoi sodali. Certo, poi c’è la marea di gente, 250.000, che accompagnerà l’eroe alla tomba dopo che gli amici del denunciato l’avranno fatto fuori. Ma le comunità dei funerali le ho sempre guardate con sospetto. Molte volte le tiene insieme il senso di colpa, un sentimento che nel giorno del corteo funebre di cui sopra risale fino al palco e si impadronisce del discorso di Luciano Lama, segretario generale della CGIL.

Del problema del senso di colpa doveva essere ben consapevole anche il Galileo narrato dal mio omonimo. Tant’è vero che ha avuto l’intelligenza di risorgere dalla tomba per evitare che i suoi seguaci si ingolfassero in passioni senza sbocco. E tornando indietro alla sua tragica fine, anche quella potrebbe spiegarsi con quella stessa spanna di troppo che è venuta fuori fra l’eroe e gli altri nel racconto di Luzzatto. Gli autori delle sue quattro biografie non dicono molto sulle ragioni che portarono uno dei suoi a mandarlo al patibolo. Scrivono tutti che questo qui intascò un po’ di soldi a ricompensa del suo gesto, insomma una faccenda di interesse. A farci sapere che era avaro è l’ultimo dei quattro in ordine di tempo, Giovanni. Che è anche l’unico a descrivere l’incidente all’origine della tragedia finale. Succede quando tutta la compagnia si trova a Betània, a casa di Lazzaro. Marta, sorella del padrone di casa, usa un’essenza piuttosto costosa per profumare i piedi del capobanda. E quello che poi lo consegnerà alle guardie se ne lamenta in pubblico. Forse era davvero taccagno o magari si trattava solo di gelosia. Ma, di nuovo, mi sembra che invece quell’avaro là si sia reso conto di qualcosa che non quadrava: nonostante tante prediche non avevano per niente costruito una comunità. Fra loro militanti di base e il leader c’era sempre la solita spanna, come minimo, di differenza. Ed è chiaro che doveva essere per forza così, se quelli erano dei terrestri e all’altro, per redimerli, gli era toccato calarsi giù dai cieli.

Dei quattro narratori, solo l’ex impiegato dell’Agenzia delle Entrate dedica due righe alla fine che fa l’avaro ingelosito. Incassa una modesta ricompensa, un decimo di quanto erano costati gli unguenti profumati di Marta, ma roso dal dispiacere subito dopo si impicca. Nello stesso modo si uccide anche un personaggio chiave della storia raccontata da Luzzatto, il collega denunciato e condannato a quattro anni e mezzo di carcere. Ne sconta solo uno, poi suicidio per impiccagione nel carcere di Cuneo. Questa della morte è una delle poche notizie certe su di lui che si trovino in giro. La sua è una vita che non ha lasciato segni. Uno che con lui era stato brigatista ne ha parlato da qualche parte, mi sembra in un libro di memorie: lo descrive come un sempliciotto, al limite della mancanza di comprendonio. In una recensione al lavoro di Luzzatto, invece, gli viene appoggiato un aggettivo che funziona, mite.

Figura della mitezza è Bartleby lo scrivano, creatura di Herman Melville. Gianni Celati, che lo ha tradotto in italiano, ne scrive appunto come di un personaggio “inespugnabilmente” mite. Quando muore non lascia traccia di sé sulla faccia della terra. “Non esiste materiale per una biografia completa ed esauriente di quest’uomo”, spiega il suo capoufficio, l’avvocato di Wall Street che l’accompagna alla tomba. Di lui rimane solo una formula, “avrei preferenza di no”, ripetuta con tranquilla ossessione. Chissà quali saranno state le preferenze del suicida di Cuneo. Che anche nell’al di là, da morto senza biografia, resta un buon palmo sotto il selciato su cui camminiamo tutti. Allora ci provo io a tirarlo su, fra le donne e gli uomini del piano terra, raccontandone la storia. Lo faccio con le limitate capacità di chi non è storico di mestiere e non ha accesso agli archivi per impossibilità logistica. Ma lì, sono sicuro, a parte le carte del processo, non c’è niente. Mi arrangio con quel si trova in rete: una pagina di Wikipedia, una del blog di Tassinari, un’altra di Insorgenze e un’ultima del Disfattista.

Francesco Berardi, sí in pratica un omonimo di Bifo, nasce il 20 maggio 1929 a Terlizzi, in provincia di Bari. Di là veniva anche Vito Tricarico, mio compagno di banco in seconda elementare alla Giuseppe Mazzini di San Pier d’Arena. Emigrato da giovane a Genova, Berardi va a vivere con la famiglia al Campasso. È un quartiere rosso come il fuoco, a due passi da dove, nei sessanta, costruiranno il viadotto venuto giù quattro anni fa. Nel 1956 entra all’acciaieria di Cornigliano, reparto zincatura. Quella fabbrica è un delitto contro il paesaggio e la comunità territoriale che su quello contava come sua decisiva risorsa. Per costruirla distruggono uno dei pezzi di costa più belli del Genovesato: spiagge, orti, ville e vigne spazzati via per sempre. Tutto per uno stabilimento destinato a durare cinquant’anni. In ogni caso, dopo un po’ dall’assunzione, l’azienda manda Berardi negli Stati Uniti a imparare le tecniche più avanzate della zincatura. Questo mi fa pensare che non fosse poi tanto a corto d’intelligenza, o forse questo del limitato comprendonio è un problema che si è presentato solo più in là con gli anni.

Al ritorno dagli States in fabbrica lo chiamano “l’americano”. Nel frattempo aderisce al Partito Comunista. Lo lascia nei settanta, per Lotta Continua prima e le Brigate Rosse poi. Viene fuori così un altro pezzo di vita comune, qualche annetto, con chi lo consegnerà alle guardie, anche lui membro del Partito a partire dal ‘67. Per la storia politica di Berardi dopo il PCI date certe non ce ne sono. Si può ragionare sul contesto. Lotta Continua vive dal ‘69 al ‘76, mentre le Brigate Rosse conquistano la scena pubblica a Genova nella primavera del ‘74, col rapimento del giudice Mario Sossi. Allora l’avvicinamento alle BR dovrà essere successivo a quell’anno, senza escludere la sovrapposizione, per qualche tempo, delle due militanze. Dei suoi anni in Lotta Continua, lo dicono due delle mie fonti, gli rimane un soprannome, “poeta della rivolta”. Scriveva liriche rivoluzionarie. Non sarà stato Tirteo, però, anche qui, viene fuori uno che proprio incapace di articolare discorsi e pensieri non lo era.

Intanto viene promosso capoturno, ma un infarto lo fa destinare a mansioni secondarie. Lo raccontano in crisi dopo la malattia, avvilito. L’azienda lo utilizza come fattorino interno, incaricato di andare in giro in bicicletta a consegnare bolle di carico e altre scartoffie. Un mestiere che deve essergli rimasto appiccicato addosso se Wikipedia scrive di lui che “entrò nelle Brigate Rosse con la funzione di ‘postino’”.

Era sposato e una figlia o un figlio di sicuro l’aveva. Anche qui il ragionamento è deduttivo: è ai nipotini che dice di pensare con angoscia quando il suo avvocato, Edoardo Arnaldi, lo incontra nel carcere di Cuneo. È il 17 ottobre del ‘79. Ancora qualche giorno e lo trovano in cella coi polsi tagliati. Stava dunque in isolamento. Ce lo lasciano anche quando lo riaccompagnano in gabbia, dopo un passaggio in infermeria per una rapida medicazione e un sedativo. Altri tre giorni e poi si fa una specie di corda con le lenzuola tagliate, l’annoda a scorsoio, l’appende su da qualche parte, c’infila la testa fino al collo e non ci pensa più.

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