Di ALEKSANDAR MATKOVIĆ, intervista di UGO ROSSI

In questa intervista dialoghiamo con Aleksandar Matković, attivista e ricercatore serbo, studioso di filosofia e storia, attualmente all’Istituto di Scienze Economiche di Belgrado. Qui la sua pagina web. I suoi principali interessi di ricerca sono il marxismo, l’imperialismo e la critica dell’economia politica. È stato attivo in numerose organizzazioni studentesche e operaie in Serbia e nei Balcani.  

Nel tuo lavoro, hai descritto il posizionamento politico-economico della Serbia come “periferia della periferia d’Europa”. In modo simile a quanto avvenuto nelle economie post-sovietiche dell’Europa orientale e centrale, dagli anni Novanta in poi la transizione all’economia di mercato in Serbia ha preso la forma di un “capitalismo selvaggio” incentrato sull’imperativo dell’attrazione di investimenti diretti esteri, sulla privatizzazione delle imprese pubbliche, sulle politiche di austerità e su megaprogetti di valorizzazione immobiliare del suolo urbano sponsorizzati dallo Stato. Qual è stato il ruolo dell’Unione Europea nell’adozione di questo modello?

Sì, questa è stata la condizione della Serbia: da un alto esterna alla UE ma al tempo stesso pseudo-integrata con debiti contratti in euro, accordi commerciali e destinataria di investimenti provenienti dalla UE. Tutto questo senza avere i diritti che competono ai paesi membri. E naturalmente abbiamo la mobilità delle merci senza avere quella delle persone. Ciò significa che i differenziali salariali tra la periferia europea e la “periferia” al di fuori dell’Unione Europea sono sfruttati dalle forze capitalistiche sia estere che nazionali. La condizione perenne di paese “in via di adesione” non fa che perpetuare questo posizionamento. Per tutte queste ragioni, gli Stati che non fanno parte della UE non possono dir “no” al blocco di potere che guida l’Europa, almeno con la stessa incisività di quelli che ne fanno parte.

Questo è il motivo per cui ho definito la Serbia “periferia della periferia” (sebbene probabilmente altri abbiano già usato questa definizione). Ma ciò non riguarda solo la Serbia. Qualcosa di simile potrebbe dirsi in riferimento al resto dei cosiddetti Balcani occidentali – per usare la definizione utilizzata dalla Banca Mondiale [che comprende i paesi dell’ex Jugoslavia, con l’eccezione della Slovenia e l’aggiunta dell’Albania, ndr].

Riguardo al carattere “selvaggio” del capitalismo nel nostro paese durante la transizione all’economia di mercato e al ruolo dell’Unione Europea: dieci o venti anni fa sarebbe certamente stato corretto chiamarlo “capitalismo selvaggio”. Tuttavia il capitalismo da allora e anche prima ha dimostrato di essere da lungo tempo “selvaggio”. È “nato per essere selvaggio” [citazione della famosa canzone, nota come colonna sonora di Easy Rider, ndr], se vogliamo giocare con le parole. E ciò lo puoi vedere concretamente nel processo di esternalizzazione della produzione che lo ha tenuto a galla dagli anni Settanta in poi, a causa della caduta dei margini di profitto dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma anche del collasso del blocco socialista orientale. E questo quadro ha orientato il capitalismo verso le periferie, che esso stesso ha creato, ed è qui che il capitalismo può diventare “selvaggio”. È una condizione storica che è stata spesso sottovalutata.

E in questa ottica, l’Unione Europea è attualmente in una fase interessante – non si è mai ripresa dalla crisi economica del 2008 (austerità, smantellamento dei servizi sociali residuali) – e ora deve proteggere le proprie imprese nel mezzo di un’altra crisi che è iniziata prima e poi è evoluta insieme con la pandemia di Covid-19. Tutto questo avviene mentre si dichiara di voler decarbonizzare l’economia entro il 2050. E ci sarà da divertirsi – per così dire – con questo “processo di decarbonizzazione” anche nella periferia.

Ad esempio, come fai a tenere margini di profitto elevati? Se sei l’Unione Europea, o almeno la Commissione, devi mobilitare capitali per un Green New Deal [il nuovo corso economico basato sulle tecnologie verdi, ndr] per salvare il capitalismo europeo. Ma ciò crea forti ripercussioni di natura politica o di altra natura nelle periferie. Prendiamo il caso del Green New Deal: al fine di incrementare i profitti ed evitare la chiusura di molte imprese, l’Unione Europea sta aiutando imprese non specializzate nell’estrazione di litio – come Rio Tinto [il gruppo multinazionale di origine australiana al centro delle contestazioni in Serbia negli scorsi mesi, ndr] – a investire nel litio e ciò è documentato da notizie che sono trapelate dai lavori della Commissione Europea. Stanno utilizzando uffici dell’Unione Europea a Belgrado a questo scopo e al tempo stesso stanno mettendo sotto ricatto il processo di adesione della Serbia alla UE in cambio dell’estrazione di litio. Tutto questo accade mentre di fatto stanno finanziando una guerra nell’est Europa.

Dunque tutto ciò sta generando una reazione in Serbia. Questa “corsa verde” ha causato mobilitazioni contro l’estrazione di litio in Serbia e altrove, perché le imprese che effettuano l’estrazione di litio stanno cercando ora di accaparrarsi il litio in aree periferiche come Portogallo e Serbia. Ciò ha dato vita a contestazioni politiche in società che erano già quasi completamente devastate da leader di destra al potere come Vučić in Serbia. Davvero viviamo in un momento divertente.

Nei decenni scorsi, il sistema politico in Serbia ha mostrato una chiara linea di continuità. L’attuale presidente, Aleksandar Vučić, fu Ministro della Difesa alla fine degli anni Novanta, al tempo di Slobodan Milošević. Come spieghi questa continuità in termini politici ed economici?

Beh, la continuità è rappresentata da Vučić stesso, come tu stesso hai correttamente notato. Ma con una correzione su quanto dici – Vučić fu Ministro delle Comunicazioni con Milošević (il che potrebbe essere perfino peggio) e solo brevemente Ministro della Difesa dopo la caduta di Milošević e lui continua a esercitare un controllo pervasivo sugli organi di informazione, dunque c’è un nesso diretto tra il suo ruolo di allora e il suo potere attuale. Un’altra, probabilmente cruciale continuità che raramente è discussa è il ruolo dei servizi segreti e degli organi di sicurezza dello Stato. I Servizi fornirono un sostegno fondamentale a Milošević, tenendo sotto controllo di fatto tutto: dai club di calcio alla riorganizzazione illegale delle importazioni di gas, consentendo alla macchina di guerra di continuare a operare malgrado le sanzioni internazionali. Una roba incredibile. E sono impenetrabili a qualsiasi indagine. Questo è uno degli aspetti meno discussi della storia dei Balcani all’indomani del collasso della Jugoslavia. E non troverai comunisti coinvolti in quelle vicende.

Per dirla in breve, la Serbia non si è mai ripresa dal collasso della Jugoslavia, il che è paradossale perché ha contribuito in larga parte a innescarla. Ciò in sostanza perché la Serbia non si è mai emancipata dalla sua classe dominante. Infatti, la maggioranza della Serbia non è un attore che conta sulla “scena mondiale” – se per Serbia intendiamo le masse di persone impoverite che sono state letteralmente annientate dal loro stesso regime politico. E le parti della Serbia che sono “attori” sulla scena mondiale – o perlomeno partecipanti di profilo minore – furono create e sostenute dalla guerra, come classe. 

Nel tuo lavoro accademico, hai indagato la restrizione degli spazi di democrazia in Serbia come una specifica forma di governamentalità. Si tratta di una variante del neoliberalismo così come lo conosciamo? E qual è la sua relazione con il persistente nazionalismo di Stato in Serbia (e la connessa ideologia della “Grande Serbia”), specie in riferimento alla questione del Kossovo?

A mio giudizio, la restrizione degli spazi democratici nel nome dell’efficienza di mercato ha radici che vanno più in profondità del neoliberalismo contemporaneo: ha origine nel Rationalisierungs bewegung in Germania (il movimento di pensiero per la razionalizzazione burocratica intorno ad autori come Max Weber, ndr), o nella corrente managerialista e taylorista negli Stati Uniti e naturalmente nell’ordoliberalismo in Germania. Quest’ultimo pose l’efficienza come criterio-guida per la sovranità nel nuovo Stato tedesco dopo la seconda guerra mondiale. Al fine di contrarre il potere dello Stato, il mercato doveva governare (e ciò ispirò Michel Foucault che vide questo passaggio come una fase fondamentale nella storia delle pratiche di governo al centro della sua ultima fase di ricerche). Tuttavia c’era qualcos’altro che doveva essere eliminato: il comunismo in Germania dell’Ovest, qualcosa che più tardi diede vita alla divisione tra Est e Ovest. Dopodiché, si ebbe l’integrazione economica europea basata su rigidi parametri, ispirata in un certo senso all’ordoliberalismo, che come sappiamo ha distrutto il movimento di Syriza in Grecia proprio a partire da questioni riguardanti il denaro necessario al ripianamento dei debiti. Questi sono solo alcuni degli aspetti più importanti del legame storico tra efficienza e restrizione della democrazia.

Quindi, per tornare a Vučić: lui agisce come l’LSD, ma a piccole dosi.

Ad esempio, non pretende che ogni aspetto della società si adegui al principio della efficienza di mercato. Come ho detto, ci sono stati movimenti ben più ampi nella storia che hanno fatto esattamente questo e ciò ci dice molto della nostra storia comune europea. Pertanto, non credo che Vučić sia unico in questo: a quanto ne so io, di fatto tutti i politici al governo in Europa stanno restringendo la democrazia e in compenso promettono di migliorare l’economia. È il discorso del nostro tempo. Vučić parla continuamente di prodotto interno lordo. Quindi mi spingerei a dire che lui in realtà ha copiato questo comportamento ordoliberale da politici europei occidentali. Il che gioca a suo favore, essendo alla ricerca del loro sostegno (come nel caso della sua amica Angela Merkel, ad esempio). Ciò non vuol dire però che qualsiasi cosa egli maneggi diventi efficiente – quindi, come la sua retorica trovi riscontro negli effetti concreti della sua attività di governo è un’altra questione. 

Per me la Serbia, come simili società autocratiche, è uno Stato fluido che evoca quel di cui Franz Neumann [il politologo marxista tedesco esiliato negli Stati Uniti negli anni Trenta, ndr] ha scritto a proposito dello Stato nazista, degli apparati para-statali nazisti e dell’economia nazista. O anche richiama alla mente la teoria dello “Stato prerogativa” di Ernst Fraenkel [altro politologo tedesco che dovette espatriare negli Stati Uniti durante il nazismo, ndr]. Questi due autori convergono su una cosa (ma prendete la mia affermazione con prudenza…), vale a dire la natura dinamica del regime nazista. È interessante vedere come questa caratteristica si riproduca oggi nell’esperienza del neoliberalismo in Serbia. Molti regimi autoritari sono fluidi, cambiano velocemente al fine di rispondere alle esigenze mutevoli delle forze economiche e dei leader autocratici. Quindi, tali regimi potrebbero a un certo punto fissare il proprio discorso sul tema dell’efficienza, ma non ridurrei tutto a questo principio. Essi cambieranno il loro discorso in base a ciò che è sul piatto in una certa fase – quindi per motivi elettoralistici possono benissimo ricorrere a temi come i diritti umani, la stabilità, ecc.

Tuttavia, si può dire che una caratteristica distintiva dei regimi autoritari sia la loro struttura mutevole e la non-osservanza dell’eredità della democrazia. Mi spingerei ad affermare che ciò si adatta bene alle esigenze del capitale, rispetto alle forme democratico-procedurali, perché può riflettere il suo movimento costante.

Ma persino in tal caso, ora abbiamo dinanzi sviluppi che non riducono tutto all’efficienza quanto piuttosto l’opposto. Prendiamo l’idea del “mondo serbo” – influenzata dall’idea del mondo russo – che potrebbe essere davvero pericolosa. Si tratta di una visione che mira a unificare i Serbi entro uno spazio culturale unificato. Ciò favorirebbe le imprese serbe all’estero e alimenterebbe il revisionismo storico che ha rafforzato il potere del gruppo di Vučić sul piano ideologico. Ma ha anche radici nel precedente regime di Milošević, che in realtà sosteneva che il Kossovo e la Voivodina, in quanto province autonome, costituivano una barriera all’efficienza e un intralcio al mercato interno della Serbia all’interno della Jugoslavia. Questo fu detto nel 1987. E allora si ebbero imprese di Belgrado che acquisivano imprese della Voivodina grazie a incentivi fiscali. Ora tutto è più etereo, e questa visione espansionista dipende dalla influenza russa.

Dacché il partito guidato da Vučić si è insediato al potere nel 2012, tre importanti movimenti hanno contestato la sua politica: dapprima, nel 2015-16 il movimento civico Ne Davimo Beograd [“non lasciare che Belgrado affondi”, ndr] che si oppose al progetto sostenuto dal governo di riqualificazione immobiliare del lungomare di Belgrado, denunciando la demolizione illegale di edifici e la distruzione dello spazio pubblico che ne è conseguita; poi, nel 2018-20 le ripetute manifestazioni di strada che hanno contestato il governo autocratico di Vučić dove sono confluiti partiti d’opposizione di diverso orientamento (di destra e di sinistra); infine, tra il 2021 e il 2022, un’ondata senza precedenti di mobilitazioni ecologiste che si sono opposte al progetto di estrazione di litio nella valle di Jadar, in Serbia occidentale, comunemente nota come “rivolta ecologica”. Qual è l’eredità di queste proteste dal punto di vista politico?

Beh, la prima e più importante eredità è il movimento Moramo (“Noi dobbiamo”, una riproposizione del croato “Noi possiamo” che è a sua volta una riproposizione dello spagnolo “Podemos”). Si tratta di una coalizione di centro sinistra che si è formata nelle proteste. I suoi membri comprendono non solo Aleksandar Jovanović Ćuta, una figura-chiave nella rivolta ecologica contro la miniera di litio, ma anche altri alleati come Nebojša Zelenović del partito ecologista Insieme per la Serbia e il movimento Ne Davimo Beograd che tu già menzionavi nella domanda. Quest’ultimo si presentava insieme a Zelenović, ma anche a una piccola piattaforma di sinistra composta principalmente da due Ong chiamate Solidarnost, che precedentemente si era staccato dal Partito della Sinistra Radicale. Nel suo insieme la coalizione non è esclusivamente di sinistra e ha a che vedere solo marginalmente con il marxismo. Ma ha avuto il vantaggio di essersi formata da un movimento di massa che si è unito a soggetti politici già consolidati.  Detto questo, ci si attendeva che potesse innescare una svolta, indebolendo il consenso del Partito Progressista Serbo [il partito di Vučić, ndr] al potere. Le previsioni lo davano al 9 percento a livello nazionale e al 13 percento a Belgrado. Quando le elezioni presidenziali, parlamentari e comunali si sono tenute il 3 aprile scorso i risultati sono stati più deludenti, ma cionondimeno degni di interesse. La coalizione Moramo alla fine ha ottenuto il 4,6% a livello nazionale, entrando in Parlamento con dodici seggi, e il 13 percento a Belgrado, ottenendo una propria rappresentanza in consiglio comunale.

L’esito più negativo delle elezioni è stato che vari partiti di centro-destra hanno ottenuto risultati al di sopra delle attese, tra cui Dveri [letteralmente “porte”], il partito che si ispira al tedesco Alternative für Deutschland e che pure ha partecipato alle proteste contro le miniere di litio, ottenendo alle elezioni il 3,9%, ossia dieci seggi. In definitiva, le elezioni hanno mostrato l’esistenza di nuove opposizioni di sinistra e di destra al regime di Vučić e al progetto di estrazione di litio. Però a dispetto delle contestazioni sul progetto di estrazione di litio, il 57,5 percento dei votanti ha scelto Vučić, mostrando il radicamento sociale del suo potere. Ciò ha causato polemiche post-voto nella sinistra democratica che aveva incentrato la propria campagna elettorale quasi integralmente sulla vicenda della miniera di litio come prova della natura del potere attuale. Questa scelta è stata comprensibile a mio avviso, considerato quale è l’elettorato del nuovo blocco di sinistra.

Comunque ora questo nuovo soggetto politico si appresta a essere riconosciuto dai verdi europei e ci si aspetta che otterrà migliori risultati in prossimi appuntamenti elettorali. Così, nel giro di dieci anni, potrebbero arrivare a rappresentare una reale alternativa a Vučić, perlomeno dopo che Vučić si deciderà a lasciare la scena.

Come mai Vučić continua a essere così forte nonostante le contestazioni e il fatto che alla fine ha dovuto fare marcia indietro sulla realizzazione della miniera di litio?

Beh, sono certo che nessuno all’opposizione in Serbia pensasse seriamente che Vučić potesse esser sconfitto in una singola competizione elettorale. Il suo partito è addirittura il più numeroso in Europa – conta più di 500 mila membri (alcune stime dicono 750 mila!). Come termine di paragone, la CDU tedesca aveva 220 mila iscritti al culmine del potere di Angela Merkel. E tenete presente che la Germania ha venti volte la popolazione della Serbia. Una buona parte delle persone che sono nel partito di Vučić sono lì per sopravvivenza – non per avidità, potere, danaro – ma solo per mera sopravvivenza. Questo è decisivo. La Serbia, uno dei paesi più diseguali e poveri d’Europa, si regge per il fatto di ammassare tutte le risorse in un solo partito, dai posti di lavoro alla protezione sociale, alle donazioni e alla corruzione, per dire. Quindi per me non è una sorpresa questa vittoria schiacciante. Ma ora dovrebbe condividere il suo potere, anche se non in grande misura. Ci vorrà ancora tempo prima che andrà via e quando andrà via bisognerà far i conti con i 500 mila che gravitano sul suo partito e che quindi dipendono da lui. Tutti si chiedono cosa accadrà quando andrà via. Per quel che penso io, l’intera regione balcanica potrà cambiare radicalmente una volta che il suo partito si sarà dissolto.   

Quale è la situazione della sinistra in Serbia, in particolare della nuova sinistra?

Per me la sinistra serba – nel senso di quella tradizionalmente democratica – è stata distrutta intorno al 2017, insieme con il suo graduale sviluppo nel “movimentismo” (che è a mio avviso un’altra conseguenza della fluidità dello Stato autoritario di cui parlavo prima). La sua espansione in vari movimenti senza una propria struttura interna – che avrebbero potuto stabilizzarsi nel Partito della Sinistra Radicale, o almeno ci furono tentativi in tal senso – alla fine ha portato al loro assorbimento in vari partiti e movimenti di opposizione. Alcune persone si sono unite al nuovo movimento Moramo, riuscendo finalmente a entrare in parlamento, altre sono diventate eterne attiviste. Ma in tutti i casi la sinistra si è dissolta nell’opposizione e non molto è rimasto del suo progetto originario di rappresentare gli interessi delle classi lavoratrici, al di là delle divisioni tra opposizione e governo. E questo approccio aveva potenzialità. Ma al di là del giudizio che se ne può dare, oggi non gode di buona reputazione. Ad esempio, il marxismo, sebbene formalmente considerato uno dei punti di riferimento più importanti della sinistra, è riuscito a radicarsi solo in alcune piccole organizzazioni, il che è un peccato perché tante energie sono andate sprecate in dibattiti e questioni ideologiche poco rilevanti, ma questa non è una novità naturalmente. Quindi non avere troppe aspettative dalla sinistra serba.

Il governo serbo guidato da Vučić ha tenuto buone relazioni con la Russia, rifiutandosi di imporre sanzioni alla Russia durante la guerra in Ucraina in corso, ma anche nella precedente annessione della Crimea. In che misura questa posizione può condizionare il processo di adesione della Serbia all’Unione Europea? 

Beh, anche se noi sorridiamo all’Europa possiamo sempre sperare di entrarvi prima che essa si dissolva. Tuttavia, noi non siamo il figlio prediletto di nessuno dal punto di vista della “politica estera” – se vuoi chiamarla così. Attualmente la Serbia si districa tra quattro riferimenti – Cina, Russia, Unione Europea e Stati Uniti – cercando in qualche modo di tenere buone relazioni con tutti e quattro al tempo stesso, a proprio vantaggio. Ma in realtà siamo diventati un comodo parcheggio per le diverse potenze imperiali. Il che va bene a Vučić, finché non c’è alcuna gara per aggiudicarsi il parcheggio. Che è quel che sta avvenendo ora. La nostra versatile politica estera ora si sta ritorcendo contro di noi, perché presto ci troveremo nella condizione di dover scegliere un blocco a discapito di un altro, e ogni scelta che faremo ci vedrà perdenti.

La questione delle sanzioni alla Russia è una perfetta dimostrazione di quel che dico: è vero, non abbiamo aderito alle sanzioni: e d’altro canto non è mai stato discusso da nessuna parte di quali sanzioni dovrebbe trattarsi. Eppure la scorsa settimana abbiamo deciso di aderire alla politica di sanzioni della UE nei confronti di Myanmar, in risposta al golpe militare. Al tempo stesso, il presidente Vučić si è pronunciato pubblicamente sul fatto che disponiamo di risorse e scorte di grano, olio di semi, etc. che ci bastano per altri tre mesi almeno, il che dovrebbe essere apparentemente una buona notizia. Quindi al governo piace scherzare, sebbene lo faccia con il nostro destino in circostanze estreme. Ai miei occhi il governo ha le sembianze di un gruppo di sbandati adrenalinici, sebbene io a volte mi chieda se siano solo un mucchio selvaggio di criminali di guerra oppure se stiano traendo una qualche forma di piacere perverso da tutto ciò. 

In Serbia, le manifestazioni sulla guerra in Ucraina sembra siano state monopolizzate dai nazionalisti pro-Russia. A dire il vero, in tutta Europa il movimento pacifista sembra in seria difficoltà oggi nel far sentire la propria voce. Vedi possibilità per un movimento per la pace, progressista e anti-militarista, in Serbia?

No. Però al contrario noi abbiamo il dovere di costruirlo. Naturalmente, ci sono molte reazioni alla guerra. Ma le persone dimenticano che noi non viviamo più in una società dove il dibattito è egemonizzato dalla sinistra. Non abbiamo più il lusso di avere un’opinione innocente e ogni nostra opinione sull’Ucraina può esser strumentalizzata sul terreno della guerra – se riteniamo che la propaganda sia parte della guerra, e lo è in maniera decisiva.

Noi dovremmo essere consapevoli di ciò. Altrimenti finiamo col fare i sostenitori della Nato (come stanno facendo alcuni accademici di base a Londra e persino il sito di lingua inglese della Fondazione Rosa Luxemburg – sembra incredibile ma è così) oppure della Russia, come stanno facendo alcune componenti della sinistra serba, accodandosi a un vasto schieramento filo-governativo. Ciò che resta fuori dal quadro in entrambe le opzioni è la natura inter-imperialistica del conflitto.

Inoltre, ciò che è più complesso da interpretare è che questa guerra per procura tra Russia e Stati Uniti nasconde in realtà un conflitto intorno al progetto cinese di nuova Via della Seta e che ciò che è in ballo qui è la neutralità della Cina e i suoi effetti in Europa orientale. E la Serbia è al centro di questi scenari, così per dire. Quindi questi processi hanno già dato vita a un evento che cambia totalmente lo scenario mondiale e la sua dirompenza rimarrà tale anche se non sfocerà in una terza guerra mondiale apertamente dichiarata.  

Riguardo alla Serbia in particolare, la sinistra serba ha perfino una teoria del mondo “unipolare” che sarebbe stato distrutto in una sola notte da Putin, cosicché ora noi vivremmo in un mondo multi-polare in cui si aprono nuovi spazi per la lotta di classe. La stessa dottrina è stata avanzata dal direttore del Servizio di Intelligence russo per la politica estera, Sergey Naryshkin, che di fatto ha il mandato di offrire una giustificazione all’invasione, mentre sia lui che la sinistra (quella destrorsa) serba sono carenti nell’analizzare la situazione di competizione tra le diverse potenze capitalistiche che si è venuta a creare all’indomani della crisi finanziaria del 2008. Quindi, state attenti a ciò che leggete, anche se non provenite dall’Europa orientale. Inoltre, mi chiedo: come mai la dottrina del Servizio internazionale di intelligence russo riemerge in Serbia? La Serbia ha una relazione speciale con questa guerra: è alleata della Russia, e porta con sé la memoria dei bombardamenti della Nato del 1999. Ora la Russia tenta di fermare la Nato, ma lo fa 22 anni dopo quegli eventi. Da parte sua la Russia sta usando il Kossovo come pretesto per l’Ucraina (“se il Kossovo può essere indipendente, possono esserlo anche Donetsk e Lugansk, etc.). Ciò mette la Serbia in una situazione speciale. In primo luogo, ha il privilegio di essere la punta di diamante delle forze reazionarie europee. Abbiamo avuto numerose proteste in favore di Putin: la Z è apparsa dappertutto, comprese magliette e vari articoli di merchandising in vendita in negozi di souvenir nelle stazioni dei treni o altrove – il che ti dice molto se sei uno straniero che arriva in Serbia. Ma al tempo stesso l’estrema destra ha fortissime esitazioni su Putin perché lui con quella dichiarazione ha implicitamente ammesso la legittimità dell’indipendenza del Kossovo. Quindi le forze nazionaliste in Serbia glorificano e al tempo stesso mettono una croce su Putin.  

Quindi, come tutti sanno, abbiamo tutte le opinioni possibili… ma non esiste un movimento per la pace, sia in Serbia sia altrove. Ed è esattamente questa situazione che va rovesciata. La guerra in Ucraina ha mostrato quanto sia disorganizzata la sinistra. In un certo senso, anche se la guerra in Ucraina dovesse terminare presto, il dovere di costruire un movimento internazionale per la pace resterebbe intatto. A differenza degli anni Settanta, non ci sono movimenti per la pace perché la pace come principio è stata spazzata via insieme con il discorso sull’emancipazione globale dell’umanità che – ci piaccia o meno – era associato alle lotte di liberazione del movimento comunista e postcoloniale del secolo scorso. E se andiamo indietro all’epoca della Prima Guerra Mondiale, oggi non esiste alcun movimento operaio impegnato a sabotare la guerra e a tentare di volgerla contro coloro che la stanno portando avanti.

Quindi, è questo ciò che si intende quando la visione dominante afferma che “non c’è alternativa”: nessun movimento per la pace è possibile, nessun movimento che possa andare contro sia la Russia sia la Nato, nessuna critica è ammessa nei confronti della messa a bando dei partiti di sinistra da parte dell’Ucraina, o del fatto che la guerra ha creato non una ma due dittature e ha portato all’espansione delle spese militari di fatto ovunque. Se non ci accorgiamo dove tutto ciò sta andando, noi non potremo mai ottemperare al nostro dovere di costruire un movimento per la pace. E tutto questo accade nel mezzo di una crisi climatica globale. Pertanto il nostro compito è il seguente: costruire un’alternativa alle classi dominanti che ancora una volta stanno trascinando l’Europa in guerra. Il compito di costruire la pace è davanti a noi perché noi – vale a dire la sinistra più ampiamente intesa – siamo nel mezzo di conflitti inter-imperiali tra i principali paesi europei e gli Stati uniti da un lato e la Cina dall’altro che non potranno che peggiorare con il tempo che passa. La crisi finanziaria del 2008 ha danneggiato molto più l’Europa che gli Stati Uniti e la Cina ed è qui in Europa che i conflitti tra queste due potenze lasceranno le conseguenze più negative abbastanza rapidamente.

Per questo motivo, la pace dovrebbe essere il criterio decisivo per formulare l’opinione di tutti noi sulla guerra: la nostra opinione serve a giustificare la pace oppure serve a giustificare la guerra? Tertium non datur.  E se serve a giustificare la seconda opzione, non è che propaganda di guerra, come ho tentato di mostrare nel caso della Serbia.

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