Lo scorso 23 giugno tutta Europa si è svegliata con una novità inaspettata dal referendum sull’Unione Europea tenutosi nel Regno Unito: il fronte del Leave aveva vinto. Perché le persone hanno scelto la Brexit: retorica anti-immigrati? Nostalgia per l’Impero e per il ruolo guida del Regno Unito? Una rivolta spontanea contro le condizioni di vita o contro un capitalismo finanziario rappresentato dalle istituzione della UE?

Ben Trott: è stata la combinazione di molti dei fattori che hai nominato, ma è difficile determinare le proporzioni in cui ognuno ha fatto la sua parte. Ciò che è chiaro, però, è che la campagna del Leave ha davvero mobilitato nostalgia, una retorica xenofobica e a volte chiaramente razzista, così come una rabbia diffusa verso l’élite politica ed economica.

L’argomento che lasciare l’UE avrebbe permesso alla Gran Bretagna di diventare maggiormente un attore globale, e in particolare di aumentare la cooperazione con i paesi del Commonwealth, è stato un ovvio tentativo di coinvolgere la nostalgia per l’Impero, su cui Nadine El-Enany ha scritto o che Paul Gilroy ha chiamato “la malinconia post-coloniale”. Non si tratta esclusivamente del desiderio della Gran Bretagna di dominare nuovamente il mondo, ma anche dell’idea che essa stessa sia stata “colonizzata” – attraverso l’immigrazione dai Caraibi, dall’Asia del Sud e più recentemente dell’Est Europa e attraverso la perdita di sovranità nazionale, in particolare a favore dell’Unione Europea. C’è stata la promessa di “fare di nuovo Grande la Bretagna”, fatta soprattutto a quelli che hanno intravisto una corrispondenza fra la caduta dei propri standard di vita e la scomparsa della Gran Bretagna dalla scena mondiale – anche se questa non è vista solitamente come la sua causa finale.

La campagna del Leave è stato inoltre molto abile nel far uso di quel tipo di movimento populista di destra che Zizek descrive nel suo libro In difesa della cause perse. L’antagonismo sociale nato da decenni di neo-liberalizzazioni è stato di fatto rimpiazzato da un antagonismo fra un “popolo” apparentemente unito e un nemico “esterno”. Sebbene ci fossero differenze sia su come fosse reputato omogeneo “il popolo britannico” che su chi fosse il nemico percepito – “burocrati senza volto”, migranti o una popolazione razzializzata.

La campagna del Leave inoltre è stata di fatto populista in un altro dei modi descritti da Zizek, vale a dire una mai piena approvazione delle regole democratiche. Spesso ed energicamente si sono appellati all’idea che il risultato del referendum potesse essere manipolato, sia dai soldi dei contribuenti spesi dalla campagna del Remain, sia rompendo la cosiddetta regola di “clausura” che impedisce ai governi di usare l’amministrazione pubblica per dar loro un vantaggio scorretto nei confronti di un’elezione. La conseguenza è stata che questo significherebbe che “la volontà delle persone” dovrebbe trovare un’altra strada per il potere. E il leader dell’UKIP Nigel Farage è stato esplicito: se l’immigrazione non può essere controllata tramite il voto, “la violenza è il prossimo passo”.

Ma il successo della campagna del Leave è ovviamente dipeso anche dal fallimento del Remain. E questo ha certamente fallito nel far uso di qualsiasi sorta di contro-populismo efficace. Ci sono state diverse voci per un “resta e cambia”, come Another Europe is Possible, DiEM25 e Jeremy Corbyn stesso. Ma per vincere, penso che ci sarebbe stato bisogno di qualcosa che avrebbe potuto davvero riunire le diverse paure e frustrazioni prodotte da decenni di neo-liberalismo, e ora dalla crescente retorica razzista. E penso che questo avrebbe avuto bisogno di essere tradotto in una forza sociale che mobilitasse voti perché in parte rappresentava la possibilità di influenzare la politica – a livello nazionale ed europeo – qualsiasi risultato fosse venuto fuori dal referendum. Ma questo non si è visto da nessuna parte. Lo abbiamo visto maggiormente dopo il voto, con più di 4 milioni di persone firmare una petizione per un secondo referendum, e migliaia di dimostranti del #LondonStays irrompere nell’area comunicazione del Parlamento durante una trasmissione di Channel 4 News.

Due fratture sembrano chiare da un’analisi del voto. La prima fra giovani e vecchi. La seconda tra Londra e il Nord dell’Inghilterra. Perché? Possiamo leggerla come una distanza generazionale o di classe, o in qualche altra maniera?

Ben Trott: uno degli exit poll più citati ha riscontrato che, come tu suggerisci, c’è stata una divisione significativa tra vecchi e giovani votanti. Tra quelli che hanno espresso un voto, il 73% di chi ha fra i 18 e i 24 anni si è espresso per il Remain. E la proporzione di voti per il Remain diminuisce ad ogni successiva categoria d’età, con il 65% di quelli fra i 65 anni e oltre che hanno votato per il Leave.

Il compiacimento che il Remain potesse probabilmente vincere, combinato con l’irritazione per il trattamento riservato dalla UE alla Grecia e ai rifugiati, quasi certamente hanno fatto venir meno alcuni dei voti tra i più giovani, che alle passate elezioni politiche nel Regno Unito sono andati ai partiti più progressisti.

La partecipazione tra i giovani votanti alle elezioni in Regno Unito però è bassa fin dagli anni ’70. E generalmente, maggiore è l’età media di una zona, maggiore è stata l’affluenza. Cosa che chiaramente ha aiutato il Leave. Ci sono tanto ragioni strutturali quanto politiche per questa bassa affluenza tra i votanti più giovani. Più uno è vecchio, da più tempo ha dovuto iscriversi ai registri elettorali. Molti giovani si registrano mentre sono all’Università, ma siccome il voto si è svolto dopo che l’anno accademico è terminato molti avranno lasciato la circoscrizione dove erano idonei a votare (l’81% degli attuali studenti era in favore del Remain). La situazione abitativa dei giovani è in generale anche di gran lunga più precaria di quella delle persone più vecchie, cosicché avrebbero dovuto essere più attenti ad aggiornare il loro indirizzo sul registro elettorale.

In termini di classe sociale o economica, c’è qualche divisione lungo le linee che proponi. Nel Regno Unito, i sondaggi e i ricercatori spesso usano un sistema di classificazione sociale basato sull’occupazione. Il gruppo AB è definito come il ceto medio e medio-alto – quelli impiegati nel settore manageriale, amministrativo o professionale. Questi hanno ampiamente votato per il Remain (57%). Il gruppo C1 si è diviso fra Leave e Remain. È definito come il ceto medio-basso; impiegati in occupazioni di supervisione, impiegatizie, manageriali di livello più basso, professionali o amministrative. E il 64% del gruppo C2DE è andato al Leave. Sondaggisti e ricercatori definiscono questo gruppo come lavoratori manuali qualificati, inqualificati, semi-qualificati, così come lavoratori occasionali o precari, e quanti fanno affidamento sullo stato sociale o pensioni per il loro reddito.

In generale, i redditi mediamente più alti hanno anche teso a correlarsi con una circoscrizione incline al Remain. Le sezioni con reddito più basso hanno propeso per il Leave. E non sono stati solo gli studenti ad essere presumibilmente propensi a votare Remain, ma tutti quelli con una laurea. Ci sono state però alcune significative eccezioni a queste generali divisioni sociali e di classe. In Scozia, i votanti hanno propeso di più verso il Remain, indipendentemente dall’istruzione. E in ognuna delle sue sezioni comunali, più del 50% dei votanti hanno votato in questo modo – nelle più ricche come nelle più povere.

Questi dati ci dicono molto. Una cosa però sembra chiara, che la campagna per il Remain ha fallito in alcuni dei modi in cui il Partito Laburista britannico – così come altri partiti social-democratici o di sinistra in Europa – sta fallendo. Vale a dire, nel combinare alcuni dei nuovi elettori progressisti con alcuni dei più tradizionali. Fondamentalmente, da una parte quelli che Paul Mason descrive come “i salariati delle città e dei paesi più grandi”, dall’altra “gli ampi segmenti della vecchia classe operaia bianca” che precedentemente componevano la base di questi partiti. I paesi e le città in cui vive il primo gruppo, spesso ospitano porzioni ragguardevoli di popolazione giovane, progressista ed istruita; e questi sono di solito molto meno omogenei nelle loro decisioni. E mentre il 53% dei votanti bianchi (e il 58% di quelli che si sono descritti come cristiani) hanno optato per il Leave, il 73% dei neri, il 67% di quelli che si sono descritti come asiatici e il 70% di quelli che si sono identificati come mussulmani hanno votato Remain.

Dove il voto progressista o di sinistra per il Remain ha fallito è simile, quindi, ai modi in cui stanno fallendo molti partiti progressisti e di sinistra, e altre forze che lottano per raggiungere una cosiddetta maggioranza sociale. Ossia nel creare davvero progetti, organizzazioni, discorsi e – in maniera importante – identità composite e collettive, fatte e animate da questi gruppi sociali differenti, capaci di indirizzare i loro diversi interessi. Podemos e le elezioni in Spagna pochi giorni dopo il referendum rivelano alcuni dei problemi di questo approccio, ma non vedo come un elemento di questo tipo di strategia populista possa essere evitato quando c’è un affermato populismo reazionario dall’altro lato e un risultato determinato dalla decisione della maggioranza.

Quali sono presumibilmente gli effetti della Brexit sul Regno Unito e l’UE? C’è il rischio di uno shock economico? Chi ne soffrirà di più nel Regno Unito? E lo spazio europeo rischia il collasso?

Ben Trott: Gli effetti sono difficili da prevedere. Il giornalista del Financial Times Wolfgang Münchau ha sostenuto che “le conseguenze della Brexit saranno neutre o moderatamente negative per il Regno Unito ma devastanti per la UE”, anche in termini di impatto sul grado di crescita dell’Eurozona in paesi come l’Italia dove la crescita è già bassa e la disoccupazione alta. Altri stanno prevedendo che l’impatto sull’economia della Gran Bretagna sarà stavolta peggio che durante il crollo del 2008.

Le agenzie di rating hanno già abbassato la Gran Bretagna da AAA, o in alcuni casi AA+, a AA. Fitch prevede un improvviso rallentamento a breve termine della crescita così come una crescita a medio termine più debole; questo ha a che fare parzialmente con il presumibile impatto economico negativo dei più bassi livelli di immigrazione così come con la caduta degli investimenti diretti stranieri e il ridotto accesso alla UE come mercato per esportazioni.

Paul Krugman ha sostenuto che ogni restrizione tariffaria o commerciale imposta post-Brexit sarà probabilmente tenue. Ma pensa anche che gli effetti possano essere significativi, poiché la garanzia di accesso al mercato è un fattore chiave per assicurarsi investimenti di lungo termine rivolti alla vendita attraverso i confini. Persone come Marianna Mazzuccato hanno segnalato che gli effetti di tutto ciò presumibilmente includono “recessione, perdita di lavoro, costi di vita più alti, investimenti più bassi, minore innovazione e peggioramento della finanza pubblica”. Ha anche giustamente evidenziato che l’affermazione “la Brexit ci renderebbe liberi” sarebbe in realtà “libertà da molti dei controlli e contrappesi al potere del capitale sul lavoro, e ad altri campi come i danni ambientali”.

Il valore della sterlina è già caduto drammaticamente, cosa che potrebbe in teoria aiutare a spingere le esportazioni e prevenire la perdita di posti di lavoro in alcune industrie. Ma probabilmente avrà anche altri effetti di medio termine, come spingere su i prezzi nel commercio al dettaglio dove molte ditte si basano sulle importazioni. E poiché i prezzi del petrolio sono calcolati in dollari, probabilmente saliranno – se la sterlina continua a cadere.

Una delle tante ironie del voto per la Brexit, come ha mostrato il Center for European Reform (CER), è che mentre la campagna per il Leave è stata più forte fuori da Londra e dalla sua cintura suburbana, queste erano anche le regioni più economicamente integrate con la UE. Le loro industrie manifatturiere e estrattive così come la produzione agricola sono spesso orientate verso un mercato d’esportazione europeo, e così hanno il massimo da perdere. Il settore dei servizi del sud-est è meno fortemente diretto alle esportazioni in UE, e l’economia di Londra è diversificata e relativamente ampia – sarà quindi maggiormente capace sia di assorbire e adattare ogni colpo preso alle esportazioni rispetto ad alcune delle zone più inclini alla Brexit.

Il rapporto del CER ha inoltre evidenziato che l’euro-scetticismo di una regione si è correlato più strettamente con il proprio atteggiamento verso le migrazioni, con zone che tendevano a vederle come minacciose per “la vita culturale della Bretagna” più affini a votare Leave. Ancora, queste sono precisamente le zone – dipendenti sulle esportazioni in UE – che hanno maggiormente da perdere se la Brexit significasse lasciare l’Area Economica Europea, che sarebbe la sola vera maniera per frenare l’immigrazione dalla UE (e per inciso queste regioni hanno generalmente livelli più bassi di immigrazione di quelle più inclini a votare Remain).

Ci sono anche alcune regioni, come la Cornovaglia, che sono state beneficiarie dell’adesione alla UE – ricevendo fondi per supportare una debole economia regionale – e che comunque hanno votato per il Leave e ora si trovano in una posizione incerta. Il voto ha anche rinforzato l’ala destra del Partito Conservatore, che è sicura di continuare a spingere un programma di austerità. E la leadership di Jeremy Corbyn del Partito Laburista è attualmente sotto l’attacco della destra, del centro e della sinistra moderata del partito. Così è davvero bassa la probabilità che una qualche forma di politica progressista, redistributiva o di economia socialmente giusta venga messa in campo, indirizzando alcune delle motivazioni che hanno prodotto quello che è stato chiaramente un voto contro la classe dirigente. Sebbene, ovviamente, crisi di questa portata aprono tutti i tipi di possibilità.

Uno dei pericoli più pressanti però non è solo che le persone “si siano pestate i piedi con la Brexit”, come la pone il CER, con la presumibile conseguenza di un reale peggioramento degli standard di vita. C’è anche il pericolo che qualcuno finisca per diventare il capro espiatorio di questo processo, con un aumento documentato del 57% delle violenze a sfondo razziale dopo il voto.

* Dipartimento di politica e relazioni internazionali, Università di Cardiff

Traduzione dall’inglese di Maurilio Pirone

Questo articolo è uscito in inglese su Leila Network

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