Di FANT PRECARIO

Tutti.

Tutte le multiformi espressioni dell’umanità hanno scritto di Toni Negri, di Antonio Negri del professor Negri, del cattivo maestro, del profeta, in ogni caso (salvo gli “amici”) evitando il contatto con la pulsione della vita, evitando l’emersione del fatto che fosse solo “un uomo terrestre che ha visto il segreto del mondo”. 

A ben pensare non proprio tutti. No, non tutti hanno scritto.

Manca perlomeno uno. 

Il povero, il periferico (il Sampierdarenese, per noi della valle, ricordato ieri e sul nefasto Secolo XIX dal vecchio Moroni che ringrazio anche per questo).

Certo, ora li/ci vedete così. Male in arnese, lingua arrotolata per il troppo vino bianco, reduci da liti con il vicino di ringhiera a guardare cantieri. Ma non fu sempre così. E poi ci sono i nostri figli e nipoti: la feccia, la canaglia, il terrore degli italiani tanto affratellati che vivi, ma anche dei sindaci con i calzini irididati (novelli Coppi, nel vendersi un quartiere in meno di 60 minuti).

Manca quella folla festosa, confusa, colorata, fatta più di corpo che di mente, quell’insieme di egoismo e di ribellismo generico che ha accompagnato il lungo 68 italiano (dalle magliette a strisce ai primi impermeabili neri) spargendo in eguale misura fiori e “simboli di morte”. 

Gente da poco, dunque, gente che – scrisse una volta Toni – leggeva soltanto fumetti. Gente che come scrisse Daniele Sepe in una delle sue più belle e contigue canzoni – irridendo e sbeffeggiando il pavido e inutile catanese- “a noi ci piacevano gli Zeppelin”.

Quei dervisci della merce metà Marlon Brando, metà frequentatori di quelle rette carsiche che dalle mura di Malapaga portavano al Maddox, sempre incerti se varcare la soglia della gloria o quella dello Zoo di Berlino, gente che lo amava e ha continuato ad amarlo perché non si può non amare ciò che pur in minima parte, in modo inutile e quasi beffardo, sei anche tu, perché il sangue, le ossa, il respiro sono di tutti (e ancora oggi il nemico è sempre uguale ed è quello che il respiro te lo toglie).

In tutte le bellissime (ma anche in quelle bruttissime) cose che si sono lette ieri e che probabilmente si leggeranno nei prossimi giorni, questa gente manca. 

Le loro facce spariscono come se quello sciame che ha percorso la propria (molteplice e moltitudinaria) vita a mezzo dei suoi libri, dei suoi comportamenti (perché tutto in lui era quello che diceva e quello che faceva e che noi si cercava di comprendere e di fare) sia mai esistito. 

Certo paragonare il “migliore” (perché lui è stato il migliore non quell’altro che tale si autonominò e mandò a morire Buranello e Fillak) ai peggiori, agli ultimi della classe (in tutti i sensi), a quelli che non possono entrare nei salotti bene ma neanche negli azzimati centri della socialità realizzata, a quelli che passano le proprie “domeniche feroci ad ascoltar le voci di amici reclutati in pizzeria”, pare arbitrario. 

Allora non avete capito un cazzo.

Certo, scrocconi, sicuramente qualcuno di noi avrà approfittato del 110%, del reddito di cittadinanza, avrà trovato una scappatoia col cognato per costruire una veranda abusiva, falsificato la carta identità per vedere i primi film porno, e allora? 

Quando Phil Ochs (che era un compagno e non un falsario come mr Banderuola-Nobel) si presentò in pubblico lamèvestito, a chi chiedeva come mai quel look per un “cantante di protesta”, rispose.:”A me piace Elvis e allora?”.

Ma cosa c’entra tutto questo con le opere il pensiero di un grande politico e filosofo?

C’entra e tanto. 

Negarlo sarebbe fare un brutto servizio allo stesso filosofo (oltre che negare l’esistenza del corpo stralunato di piazza settembrini o quello dei martiri di Genova) il cui pensiero è stato soprattutto vita, ripresa della vita, tentativo di forgiare una postura umana a delle bestie affamate di merce (che, come direbbero Totò e Peppino “siamo noi”, un po’ i Fratelli Capone del funk proletario).

Perché l’operaio sociale nasce nella convinzione che la seicento non basta più, non è un punto d’arrivo (anche se, mi si dirà, andare al lavoro in 600 o alla spiaggia è più comodo che andare in autobus o in treno). 

Ci si costruiva, ci si pensava, ci si elaborava così tanto donando al capitale che una eccedenza doveva sottrarsi o quantomeno tornare in termini di vita, di respirazione.

Qualcuno si chiedeva ieri se Toni capisse di arte. Personalmente penso di sì, da buona vittima del culto della personalità ritengo anche moltissimo. Ma l’importante non è quanto ne conoscesse ma quanto, appunto, ne capisse, riuscisse ad annusare. A percepire (e in questo era davvero uno di noi).

Non penso che Basquiat fosse uno tra i più bravi sassofonisti, né un Arrigo Polillo, né un pugile o un dipendente SKY, però come fa suonare lui Charlie Parker (o per altro verso danzare immobile Sugar Ray) nessuno né prima né dopo.

Il “pensiero costituente” di Toni spiega più è meglio di ogni altra lettura specialistica, di ogni dotta elaborazione, il dispiegarsi della musica nel tempo. Spiega l’eroismo dei Beatles e il tradimento del brit-pop, annegando/ci di quel Mersey che sfocia in fregio all’Italsider (che, caro Ian, non è proprio un paradise). 

Dimostrò che Tony Blair non è mai esistito e che quello che girava per i G7/8 etc. era Noel alla ricerca di un modo meno asfittico di suonare la chitarra (che poi perché questo passasse per bombardare la Serbia, resta un mistero) più e meglio di tante minchiate inchiostrate sulle fanzine pseudo-proletarie. 

Ci spiegava perché il primo disco jazz sia stato inciso da un italiano e proprio perché quando noi si annegava a Caporetto e proprio perché in vendetta al linciaggio del 14 marzo 1891. Perché il proletariato giovanile non lo uccidi; viscido e colorato come una serpe, sguscia e ti riappare come non l’aspetti, vestito da Jazzista, da Guardia Rossa, da partigiano, da cantante Beat, in ogni caso da cencioso mai da servo.

Ci spiegava e spiega il sorgere/risorgere/tirar fuori la testa di quel modo di spiazzare la legge del valore che da giovani proletari ignoranti chiamammo musica creativa, dopo aver capito che” progressivo” in inglese non ci azzeccava un cazzo col “progresso” in italiano. 

Cos’è stato Toni per il proletariato giovanile di una volta (quello che ora ha pancia e testa pelata) e quello, ammesso che esista, di oggi (multicolorato con ogni pantaloni che scendono dal culo e le maglie larghe, le lingue strane, la musica incomprensibile ad un vecchio)? 

Cosa c’entra? c’entra e c’entra tanto perché quando leggevi le sue opere, quando lo sentivi parlare, quando -finché ha potuto- ti sei bevuto più di una bottiglia di bianco insieme, quando -neppure tanto cordialmente- ti faceva capire (a ragione, intendiamoci) che eri un cretino, SEMPRE sentivi il calore della comunità operaia.

Perché la povera gente (ricordiamoci l’accento di Toni nelle sue opere sul “povero”) ha bisogno di calore, anche di sudore perché è dal calore che si sprigiona, pure se bruciando copertoni, ma SEMPRE ridendo e scherzando insieme, odiando quella vita che il padrone ti ha costretto ma amando la vita che ancora non si sa per quanto e quanto ci sei dentro, che si riesce a costruire un sentire comune incommensurabile al capitale e come tale in ogni momento pronto ad opporvisi. 

Ecco, caro (come qualche volta mi sono permesso di scriverti) Toni il tuo forse più stupido tra i tanti discepoli che hai avuto ti saluta assicurandoti che finché ci saranno dei poveracci il tuo pensiero non finirà e anzi sarà da stimolo per portare la feccia a concretizzare utopia.

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