di NATASCIA TOSEL.

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Michael Hardt, oggi conosciuto soprattutto per i suoi scritti a quattro mani con Toni Negri, è stato forse il primo filosofo a studiare (e non semplicemente a citare) Deleuze in terra americana. Egli, infatti, ha dedicato la sua intera tesi di dottorato all’autore di Differenza e Ripetizione e, pubblicando quest’ultima, ha messo la sua firma sulla prima monografia in lingua inglese consacrata al pensiero deleuziano. Il testo risale al 1993 e conosce una prima versione italiana nel 2000, quando viene pubblicato da A-change. Quello che DeriveApprodi ci propone oggi, dunque, è la seconda edizione italiana del libro di Hardt, che ha preso il titolo di Gilles Deleuze: un apprendistato in filosofia (DeriveApprodi, collana OperaViva, 2016, a cura di G. De Michele, trad. it. di C. Savi, pp. 264, € 17).

Non si può certo dire che si tratti di un’opera nuova, dal momento che è stata scritta più di vent’anni fa; eppure abbiamo di fronte un libro del tutto attuale. Questo apparente paradosso è facilmente spiegabile: Hardt ha scritto un testo profondo, che non ha tentato di seguire le interpretazioni del pensiero deleuziano più “alla moda”, le quali hanno cercato spesso di etichettare Deleuze, a seconda del momento, come sessantottino, come marxista, o addirittura come fascista (oggi ci sembra un’accusa assurda, ma fu mossa realmente a Deleuze e Guattari dai maoisti francesi dell’UCFml nel 1977). Hardt ha dato una lettura politica della filosofia deleuziana, ma l’ha fatto – e questa è la sua forza – attraverso un lavoro concettuale che non mirava necessariamente a ricondurre Deleuze ad una bandiera politica, ma tentava, piuttosto, di metterne in luce la potenza del pensiero. Si tratta di una potenzialità politica che ancora oggi, nonostante gli studi su Deleuze siano ormai numerosissimi, rimane impensata e da pensare: spesso si riconduce Deleuze a delle branche della filosofia, come l’estetica o l’ontologia, e, se si parla di politica deleuziana, ci si riferisce quasi sempre ai testi che Deleuze e Guattari hanno scritto insieme.

Il testo di Michael Hardt, invece, apre una nuova via d’interpretazione, poiché tenta di dimostrare che Deleuze è stato un pensatore politico fin dall’inizio. Il libro mostra, infatti, che il lavoro che Deleuze ha condotto negli anni ’60 sulla storia della filosofia e che ha prodotto diverse monografie (su Hume, Nietzsche, Bergson, Spinoza), implicava delle operazioni concettuali che erano già orientate verso quello che Hardt chiama un assemblaggio politico. Quest’ultimo, definibile anche come concatenamento, fa riferimento all’etica spinoziana e alla sua teoria della composizione dei corpi: bisogna sperimentare per poter conoscere quali corpi si compongono con me e mi conducono verso affezioni attive, e quali, invece, sono per me distruttivi. Questa sperimentazione, chiamata anche etologia, deve condurre verso un’organizzazione degli incontri, che consenta di evitare il più possibile quelli dannosi e favorire, invece, quelli gioiosi ed utili. Quando Hardt, dunque, parla di un assemblaggio politico intende segnalare, in Deleuze, la presenza di una tale pratica etologica, tesa alla costituzione di un regime politico che sia in grado di organizzare gli incontri e le relazioni sociali, in modo da evitare quelli distruttivi e rischiosi. Questo regime politico non potrà che essere, allora, una democrazia radicale, poiché qualsiasi altra forma di governo metterebbe in campo dei dispositivi di potere che mirerebbero all’imposizione di un ordine, piuttosto che alla creazione di un’organizzazione. In questo senso, la democrazia radicale è una prospettiva “anarchica”, non perché miri ad un totale disordine, bensì perché propone un’organizzazione non gerarchica.

È lo stesso Deleuze, del resto, a definire la prospettiva politica di Spinoza un’anarchia, proprio perché si oppone a qualsiasi ordine e gerarchia (Deleuze, G., Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, Ombre Corte, 2010, p. 96). Inoltre, anche la lettura deleuziana di Sade, presentata in Il freddo e il crudele, seppur non citata esplicitamente da Hardt, potrebbe confermare l’esistenza di un assemblaggio politico deleuziano, al contempo democratico e anarchico (anche se i due termini, com’è evidente, non conservano in Deleuze il loro significato classico: la democrazia è qui un’organizzazione che favorisce le buone relazioni sociali; l’anarchia, invece, è la soppressione di un ordine, a favore di un’organizzazione). Deleuze, infatti, trova in Sade la teorizzazione di un regime anarchico, che corrisponde ad un sistema politico in cui vigono il minor numero possibile di leggi (che sono l’espressione di un ordine) e, al contrario, una grande quantità di istituzioni (che hanno, infatti, un potere solamente organizzativo). Democrazia, dunque, secondo Hardt, è sinonimo di organizzazione e costituzione di quella che chiama già, precocemente, una moltitudine: il termine, com’è noto, è di Spinoza, ma diventerà il perno della sua futura proposta politica, delineata con Toni Negri a partire dagli anni 2000, in Impero e Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale; segno, questo, che il suo studio su Deleuze è stato davvero per lui, come recita il titolo del libro, un “apprendistato in filosofia”.

La strada aperta da Hardt, però, com’è stato detto, è rimasta pressoché imbattuta: oggi, infatti, è difficile sentir parlare di una proposta politica concreta a partire da Deleuze. Questo riflette ampiamente le lacune presenti nella letteratura critica che si è occupata dell’opera deleuziana, la quale si è troppo spesso concentrata su un’esegesi dei testi di Deleuze e, nel migliore dei casi, ha ricostruito il rebus degli autori che lo hanno influenzato, ma è sembrata spesso incapace di cogliere la portata teorica delle sue operazioni filosofiche. Hardt, al contrario, ha dedicato il suo testo proprio a queste ultime riferendosi, in particolare, alle letture deleuziane di Bergson, Nietzsche e Spinoza. Ma non si tratta per lui di stabilire quanto Deleuze sia rimasto fedele a tali autori, e quanto, dunque, possa dirsi bergsoniano, nietzschiano o spinoziano. Lo scopo del libro è, piuttosto, quello di comprendere come Deleuze si sia servito di questi tre filosofi per costruire, rispettivamente, un’ontologia, un’etica ed una pratica. Hardt, infatti, sostiene che Deleuze dia vita, attraverso Bergson, ad un programma ontologico composto di due parti: una pars destruens che si oppone ad Hegel e al falso movimento della dialettica, ed una pars costruens che ha di mira, invece, una logica positiva dell’essere incentrata sul concetto di differenza. Bergson, perciò, è utile a Deleuze nella costituzione di una nuova definizione di differenza, che deve essere interna e qualitativa, e che si rifà al concetto bergsoniano di molteplicità; quest’ultimo, infatti, intendeva risolvere il problema della relazione tra uno e molti in modo differente rispetto a quanto fa Hegel con la sua sintesi dialettica.

Proprio tale sintesi, del resto, fondava in Hegel il primato dello Stato e, perciò, l’interesse deleuziano per tale problematica sarebbe già indice, secondo Hardt, di una prospettiva politica. Quest’ultima si riconfermerebbe nella lettura che Deleuze fa di Nietzsche, nella quale non è più in questione una fondazione ontologica della differenza, ma si tratta, piuttosto, di tentare la creazione di un’etica dell’affermazione. Come Bergson serviva a Deleuze per polemizzare con Hegel, così Nietzsche, secondo Hardt, gli serve per criticare Kant. Proprio l’autore delle tre Critiche, infatti, avrebbe condotto una critica parziale e troppo educata, mentre una vera critica deve essere totale, insurrezionale e concreta, proprio come il prospettivismo nietzschiano. Quest’ultimo continua a lottare, in realtà, anche contro la dialettica hegeliana, in particolare contro quella tra servo e padrone, nel tentativo di affermare una volontà di potenza, in grado di farla finita con il negativo e la reazione. Deleuze legge, dunque, l’eterno ritorno come un’etica: il lancio di dadi, che rappresenta insieme il caso e la necessità, non è che l’affermazione della volontà.

Da qui il passo verso la concezione di una pratica della gioia è breve, ma non abbastanza, secondo Hardt, da poter ritrovare quest’ultima già in Nietzsche. Al pensatore dell’eterno ritorno, infatti, mancano ancora due elementi per poter giungere alla dimensione della praxis, ossia, da un lato, la messa in scena di agenti corporei e desideranti (invece che di una volontà del tutto impersonale) e, dall’altro lato, la costituzione di uno spazio sociale (e non solo temporale), dove tali agenti possano muoversi. Entrambe queste istanze, agli occhi di Deleuze, sono ben presenti in Spinoza, il filosofo a cui dedica la sua tesi di dottorato complementare, pubblicata con il titolo Spinoza e il problema dell’espressione. Secondo Hardt la lettura deleuziana dell’autore dell’Etica è duplice: da un lato, Deleuze lo affronta dal punto di vista speculativo, utilizzandolo per costruire un’ontologia materialista (un’ontologia, cioè, che non intende dare nessun privilegio all’attributo intellettuale rispetto a quello corporeo).

Dall’altro lato, invece, attraverso la mediazione del concetto di potenza (concetto, questo, su cui Hardt insiste molto, anche sulla scia della lettura di Spinoza proposta da Negri in L’Anomalia selvaggia, il cui focus era precisamente la distinzione spinozista tra potere e potenza), lo sguardo di Deleuze si volge verso la costituzione di una pratica. Si tratta di una pratica materialista delle costituzione, che non si lascia ridurre alla teoria (come accade, invece, in ogni pensiero dialettico) e che ha come modello il corpo. Quest’ultimo, infatti, è mosso da un conatus, che lo porta a sperimentare la composizione e l’incontro con altri corpi, al fine di ottenere passioni e affezioni gioiose, che aumentano la sua potenza. Allo stesso modo, il corpo sociale nasce, nello stato di natura, come molteplicità libera e anarchica che, però, è caratterizzata da un minimo di potenza; essa, perciò, è spinta a costituire un assemblaggio politico, che la rende una moltitudine, in grado di portare avanti un’organizzazione che, al contempo, aumenti la sua potenza e mantenga l’uguaglianza dei suoi membri: siamo giunti così alla democrazia radicale, che – come si è visto in precedenza – costituisce l’assemblaggio politico propriamente deleuziano.

Hardt conclude, così, il suo viaggio nel pensiero di Deleuze, delineando, all’interno di quest’ultimo, una linea di evoluzione che dall’ontologia avrebbe condotto Deleuze prima ad un’etica dell’affermazione, e poi ad una pratica della costituzione volta verso una democrazia radicale, aperta, orizzontale e creata dal basso, attraverso la tecnica dell’assemblaggio. Questo, secondo Hardt, era l’obiettivo di Deleuze fin dall’inizio ed è la ragione per cui egli ha rivalutato una tradizione filosofica materialista e apparentemente minoritaria (Bergson, Nietzsche, Spinoza, Lucrezio), in opposizione ai grandi classici, quali Platone, Kant e Hegel. Proprio per questo, il titolo del libro, come detto, parla di un “apprendistato in filosofia”: Hardt dice chiaramente, nella conclusione, che non si tratta solo dell’apprendistato di Deleuze, ma anche del suo, poiché la scrittura di questo libro gli ha permesso di avventurarsi nella storia della filosofia. Aggiungiamo, per concludere, che vi è in gioco anche un terzo apprendistato, quello del lettore che sarà disposto a seguire Hardt ed imparare, insieme a lui, che cosa significa, in filosofia, pensare con e attraverso un autore.

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