di GISO AMENDOLA.

(è stato pubblicato il nuovo fascicolo della South Atlantic Quarterly, vol. 116, n.4 – October! To commemorate the Future – numero curato da Michael Hardt e Sandro Mezzadra e dedicato a riflessioni sul tempo attuale alla luce della Rivoluzione. Dopo l’introduzione dei curatori [qui], pubblichiamo, grazie alla cortese autorizzazione della rivista e dell’editore, il testo di G. Amendola. Nei prossimi giorni pubblicheremo i testi di T. Negri e M. Hardt – EN).

La rivoluzione contro il diritto.

Nel Postscriptum conclusivo del loro Commun, dopo aver indagato molti esempi storici di produzione dal basso di “comune”, di spazi di autonomia e di indipendenza dalla proprietà privata e dallo sfruttamento, Pierre Dardot e Christian Laval (2014) si interrogano sull’attualità della rivoluzione. La ragione neoliberale ha escluso dal campo di quello che può essere politicamente pensato la rivoluzione in quanto tale, la trasformazione radicale del presente nella sua totalità. Eppure, la ragione neoliberale costituisce essa stessa una totalità, che organizza, o pretende di organizzare, tutto il sociale. La trasformazione radicale dell’intero assetto, non solo politico ma sociale, deve quindi essere confermata come finalità delle lotte che mirano a contrastare il neoliberalismo. Un libro che costituisce una decisa rivendicazione dell’attualità della tradizione mutualistico-associativa e federalistica, chiude, quindi, con una riflessione sulla rivoluzione e sulla necessità di mantenerne il concetto. La sintesi tra tradizione mutualistica e opzione rivoluzionaria è trovata qui nell’idea, tratta dai lavori di Castoriadis (1987), di rivoluzione come prassi autoistituente della società. È significativo che linguaggio delle prassi istituenti e della rivoluzione vengano qui conciliati: la rivoluzione è trasformazione radicale dell’intera società, ma, insieme è produzione di istituzioni singolari nel presente. Questa compresenza, nell’elaborazione di una strategia di opposizione al neoliberalismo che prova a generalizzare esperienze ed elaborazioni emerse nel movimento dei beni comuni, non è certo facile o senza problemi.

Da un lato, il mantenimento della prospettiva rivoluzionaria, dall’altro la prospettiva della costruzione di una trasformazione all’interno del neoliberalismo stesso, seppure nella prospettiva di una sua radicale trasformazione. Come hanno scritto Brett Neilson e Sandro Mezzadra (2014), l’“abolizione dello stato di cose presenti” insiste sul tempo presente della trasformazione, allontanando il rischio che il comunismo sia accolto come un ideale regolativo, un orizzonte che si allontana continuamente: e però, continua ad indicare un’attività essenzialmente negativa. Il momento affermativo, quello che richiamano le prassi istituenti, la produzione dei commons, dal canto suo, rischia di essere declinato in modo debole: una micropolitica che certo si muove nel presente e non rinvia a nessun futuro “orizzonte d’aspettativa”, ma rinuncia a mettere a tema la dimensione diversificata ma in ogni caso complessiva dello sfruttamento.

Tra produzione dei commons e affermazione del comune al singolare, tra invenzione di altre istituzioni e rivoluzione, ma anche, dal punto di vista del tempo, tra trasformazione nel presente e orizzonte di aspettativa: la questione comunista viene oggi riproposta all’interno di una diversificazione delle pratiche e dei dispositivi. All’eterogeneità dei dispositivi di sfruttamento e di estrazione, corrisponde l’eterogeneità delle lotte, delle pratiche di resistenza e di produzione dei commons; eterogeneità che è già caratteristica essenziale delle soggettività impegnate in queste pratiche. Trasformazione radicale, costruzione di potere effettivo, produzione di massa critica devono fare i conti continuamente con questa eterogeneità costitutiva, che rende difficile immaginare la trasformazione radicale secondo l’alfabeto classico della rivoluzione. È sempre attuale, in questo contesto, la caustica affermazione di Deleuze, per cui il “futuro della rivoluzione” non coincide per nulla con l’effettivo “divenire-rivoluzionario” (Deleuze, Parnet 2002: 2). D’altro canto, pratiche micropolitiche, interstiziali, “leggere”, rischiano, eliminando la questione della rivoluzione, di essere rapidamente messe al servizio dei dispositivi neoliberali: o, almeno, di installare le resistenze su un terreno meramente difensivo, neocomunitario e illusoriamente pensato come esterno al rapporto di capitale.

Accanto a questo difficile rapporto tra pratiche e totalità, tra singolarità e comune, tra micropolitica e costruzione di potere, le pratiche di costruzione dei commons, di produzione di istituzioni o di autoistituzionalizzazione della società, sollevano anche il problema specifico del rapporto con le forme della regolamentazione giuridica. Queste pratiche, plurali ed eterogenee, usano spesso il linguaggio e gli strumenti del diritto e dei diritti. Possono farlo ovviamente strumentalmente e tatticamente: possono utilizzare il diritto all’interno di lotte specifiche, usarlo come quotidianamente lo si usa nella gestione dei propri affari. Le pratiche istituenti e la produzione dei commons hanno però anche una relazione con il diritto più stretta e più problematica. Il diritto è utilizzato come strumento specifico per la produzione dei commons, lo si considera parte delle stesse pratiche istituenti. Si immagina la produzione dei commons come una modalità di produzione di diritto altra, se non alternativa quella delle fonti istituzionalmente riconosciute. Produrre istituzioni, liberare spazi dalla proprietà privata, creare luoghi, momenti e procedure di decisione collettiva dal basso: le pratiche che, soprattutto dal 2011, dal ciclo di Occupy, hanno caratterizzato i movimenti sociali sono state interpretate come prassi sociali istituenti, e, allo stesso tempo, anche come fonti di una giuridicità alternativa, autonoma dal monopolio pubblico delle fonti di produzione del diritto. Dalla produzione dei beni comuni rinascerebbe un vero e proprio diritto dei commons (Law of the commons) e, in prospettiva, una complessiva pratica giuridica alternativa, una Law of the common.

Come ha scritto Sandro Chignola,

Se un tempo la critica del diritto era semplicemente la critica dell’ipocrisia per mezzo della quale il sistema giuridico occultava il dominio dello Stato, svaporata la centralità di quest’ultimo (…), il diritto può essere appropriato, attraversato e adoperato come parte di un più generale progetto di trasformazione della realtà (2012:7-8).

È possibile però immaginare che la forma giuridica possa essere così duttile e versatile da poter essere strumentale anche a un processo di trasformazione radicale? Come è tutto da chiarire quale sia il rapporto tra produzione di commons e trasformazione radicale fondata sul comune, così è molto problematico il rapporto tra produzione giuridica, altra e alternativa nei confronti dello Stato, e rivoluzione. Diritto del comune e rivoluzione: sono qui richiamati temi marxisti classici, a cominciare, evidentemente, da quello della transizione. Un luogo classico per poter metter a confronto le strade di un possibile diritto del comune con questi nodi problematici, può essere allora ripensare uno dei confronti più drammatici tra teoria giuridica e rivoluzione, il tema dell’estinzione del diritto quale fu ripreso, negli anni Venti del Novecento, dal giurista sovietico Pashukanis, al centro della riflessione del quale sta proprio il rapporto tra forma giuridica, transizione e comunismo. L’Ottobre aveva prodotto una nuova forma di diritto? O, almeno aveva inserito nuovi rapporti di classe nelle vecchie forme, permettendo un utilizzo in senso rivoluzionario del diritto? La rivoluzione poteva essere interpretata come fondazione di uno Stato proletario?

Oltre la critica del diritto come critica dell’ideologia

L’interesse attuale per la teoria generale del diritto di Pashukanis1 risiede nel fatto che è un esempio di critica materialista del diritto, che rifiuta la critica del diritto come semplice ideologia o sovrastruttura. Il diritto non è una mistificazione che occulta le autentiche relazioni di potere, né è una falsa forma normativa che copra un qualche autentico contenuto fattuale: non è la mistificazione nell’eguaglianza formale della norma astratta di uno specifico contenuto concreto, individuabile nel dominio di classe borghese. L’astrazione per Pashukanis non è una falsificazione della verità concreta. Dal punto di vista del metodo, Pashukanis segue un approccio marxianamente rigoroso: l’astrazione è uno strumento indispensabile per la comprensione delle cose (Pashukanis 1964: 108). Si tratta però di un’astrazione che, a sua volta, è resa possibile da precise circostanze storiche: l’astrazione determinata permette di conoscere il concreto, ma è a sua volta prodotta da condizioni materiali che ne costituiscono il presupposto. Occorre procedere dal più semplice al più complesso: il più semplice, però, è a sua volta non un dato, ma il prodotto di condizioni materiali necessarie perché quell’astrazione diventi possibile (Pashukanis 1964: 109). Dal punto di vista del metodo, Pashukanis si muove perfettamente dentro gli strumenti della marxiana critica dell’economia politica: molto lontano dal considerare i concetti un’astrazione da eliminare riportando l’analisi ad una pretesa concretezza empirica, Pashukanis ritiene l’astrazione concettuale il principio che rende possibile l’analisi dei fenomeni sociali. La stessa astrazione però va riportata alle condizioni storico-materiali che la producono. Il concetto di lavoro in generale è evidentemente un’astrazione: un’astrazione indispensabile, perché solo il lavoro in generale, il lavoro come astrazione economica, può spiegare la realtà storica delle forme di lavoro concrete e determinate (Pashukanis 1964: 110). A sua volta, però, il lavoro in generale è concetto che si sviluppa esclusivamente grazie alla produzione industriale, la quale ha reso omogeneo il lavoro come mezzo di produzione, ne ha permesso la misurazione, ha gettato nell’irrilevanza le differenze specifiche e qualitative tra le diverse concrete specie di lavoro. Infine, e ancora perfettamente dentro il metodo marxiano, Pashukanis ricorda come i concetti quali astrazioni determinate, pur formandosi cronologicamente in un momento avanzato dello sviluppo storico, servono a spiegare le fasi precedenti: se si vogliono comprendere le decime e i tributi feudali, occorre possedere il concetto dio rendita fondiaria. La società borghese sviluppa i concetti con i quali è possibile comprendere i rapporti di produzione delle società passate: marxianamente, l’anatomia dell’uomo spiega quella della scimmia.

Il metodo marxiano dell’astrazione determinata è il cuore della teoria generale del diritto di Pashukanis. Pashukanis infatti offre una definizione formale di diritto: il diritto è relazione tra soggetti giuridici. Il diritto è astrazione: è il rapporto – astratto – tra soggetti giuridici – essi stessi prodotto di astrazione. A sua volta però, l’astrazione è astrazione determinata: la forma giuridica – il rapporto tra soggetti giuridici – è prodotta da specifici rapporti di produzione. Il rapporto tra soggetti è la forma giuridica prodotta dall’economia mercantile fondata sul libero scambio di merci. Il soggetto giuridico, a sua volta, è il possessore di merci, dotato della sua libertà, e in primo luogo, della libertà di contrarre. Pashukanis non deduce linearmente la sovrastruttura giuridica dalla struttura economia: tantomeno, considera la prima una deformazione ideologica che coprirebbe i rapporti materiali che si esprimono nella struttura. La commodity exchange theory of law2 sottolinea invece l’analogia strutturale tra la società capitalistico-mercantile e la forma giuridica. La prima è circolazione di merci, e la merce è forma del valore di scambio, astrazione rispetto alla particolarità del valore d’uso. La seconda, la forma giuridica, è la costituzione del soggetto astratto di diritto e del rapporto di eguaglianza (formale e astratta) tra questi soggetti. Il riferimento alla forma non serve solo per smascherare l’ideologia borghese: serve anche, scrive Pashukanis, “per chiarie in linea di principio le caratteristiche della sovrastruttura giuridica come fenomeno obiettivo” (40). Prosegue poi Pashukanis subito dopo:

Il principio del soggetto giuridico (intendiamo con ciò I principi formali della eguaglianza e della libertà, il principio dell’autonomia della persona etc.) è non soltanto uno strumento di inganno e un prodotto della ipocrisia della borghesia in quanto si oppone alla lotta proletaria per la eliminazione delle classi, ma è in pari tempo un principio realmente operante nella società borghese, quando questa si genera dalla società feudale-borghese e la distrugge (Pashukanis 1964: 40).

Il soggetto è astrazione: ma l’astrazione determinata è una astrazione che ha una forza costitutiva, effettivamente funzionante. Il soggetto giuridico è la principale di queste astrazioni: la “persona” è il centro dei rapporti nel campo del diritto privato, ed è una costruzione astratta, possibile però solo perché, in quello specifico rapporto di produzione che è l’economia capitalistico-mercantile, l’individuo si caratterizza come possessore di merci.

Maschere che stringono liberi rapporti fondati sulla libera volontà di contrarre: la forma giuridica si costituisce così come analogo al feticismo della merce che caratterizza la società dello scambio. Ma proprio come il feticismo della merce non è una distorsione, un falso, o una corruzione ideologica, ma riflette la specifica forma-merce che caratterizza la società capitalistica, così a sua volta la forma giuridica è la forma specifica della regolazione sociale in questo determinato rapporto di produzione.

La posizione di Pashukanis, rispetto a gran parte della tradizione giuridica, e a gran parte della critica del diritto che a quella tradizione comunque si rifà, si caratterizza in modo molto evidente per una decisa relativizzazione del ruolo della coazione giuridica, del comando e dello Stato. Come nota Antonio Negri, lo squilibrio tra momento dell’organizzazione dello sfruttamento e momento del comando in Pashukanis, a prima vista, sembrerebbe evidente (Negri 2012: 221). La marginalizzazione del diritto pubblico, e la relativa elevazione del diritto privato a centro dell’esperienza giuridica, sono evidentemente la conseguenza di questo assoluto privilegio per il momento orizzontale nella costruzione della forma giuridica. In Pashukanis, è centrale il momento del costituirsi dell’uguaglianza formale, e del rapporto contrattuale come relazione tra egualmente libere volontà, come forma dello sfruttamento. Non si tratta, però, di una difesa della società borghese. La logica del rapporto tra eguali non è ideologia in quanto è funzionamento reale, dispositivo effettivo: ma è comunque la logica che produce lo sfruttamento di una classe sull’altra. Pashukanis non minimizza lo sfruttamento: lo fa discendere però direttamente dalla forma giuridica dell’uguaglianza tra soggetti liberi, piuttosto che dal contenuto di classe che la forma giuridica sarebbe chiamata a coprire. Pashukanis non privilegia la forma dell’uguaglianza sulla concretezza del comando perché sarebbe più interessato alla regolazione riformistica della circolazione che a scendere marxianamente nei laboratori della produzione, come lesse con molta malizia Karl Korsch (1978: 189-195). Tutto il suo discorso è una critica della regolazione borghese e della forma giuridica che la rende possibile. Il suo obiettivo però è far emergere lo sfruttamento direttamente e principalmente dalla forma giuridica dell’eguaglianza: e in questo la commodity-exchange theory è effettivamente l’analogo effettivo, nel campo della teoria giuridica, della critica marxiana dell’economia politica. Specifico meccanismo di sfruttamento della forza lavoro. La merce è astrazione, il soggetto giuridico è l’astrazione coniata in parallelo alla figura del possessore di merci: ma la specificità della merce forza-lavoro, del suo costituirsi come tale e del meccanismo dell’estrazione del plusvalore entrano nella teoria di Pashukanis in modo molto marginale. Il centro della sua analisi è il feticismo della merce come si riflette nel rapporto giuridico tra possessori di merci, molto più che la compravendita della forza lavoro e il suo effetto diretto di sfruttamento3.

Se il comando sulla forza lavoro ha un ruolo marginale, è però vero anche che già la forma giuridica, la relazione tra soggetti formalmente eguali, per Pashukanis contiene il segreto dello sfruttamento: Il segreto è nella forma, non nel contenuto di classe: non perché la materialità del contenuto classista del diritto non conti, ma, al contrario, perché lo sfruttamento di classe è già tutto nella forma giuridica, specifica della società capitalistica di mercato. Lo sfruttamento nasce nella forma giuridica dell’equivalente, nell’apparente equilibrio formale della relazione giuridica. La conseguenza di questo formalismo in realtà molto poco formale, perché esso stesso motore dello sfruttamento, è evidente: il diritto non è uno strumento neutrale – già nella sua forma, e non per il suo contenuto contingente – rispetto allo scontro di classe. Non si può, perciò, eliminare il suo contenuto di classe e farlo funzionare come strumento di altri rapporti di forza materiali. Non esiste alcun diritto proletario, il diritto è già nella sua forma borghese, e non può essere reso funzionale ad altro (Pashukanis 1964: 103).

Le conseguenze nell’analisi del rapporto tra diritto, rivoluzione e transizione sono a questo punto evidenti: se il diritto è indissolubilmente legato, nella sua forma, alla società capitalistico-mercantile, la rivoluzione, estinguendo il rapporto di produzione capitalistico, non può che produrre l’estinzione del diritto. Estintosi lo scambio di equivalenti, non c’è più forma giuridica, che è la forma dello scambio di equivalenti. La rivoluzione comporta l’estinzione del diritto, non un diritto rivoluzionario: e finché non si estingue, il diritto non sarà che la regolazione dello scambio, e quindi il diritto formale borghese.

Nessun diritto è proletario.

L’obiettivo polemico di Pashukanis è chiarissimo: è l’idea di un “diritto proletario” che si costituirebbe nella fase di transizione. La forma giuridica come forma specifica della società capitalistica fondata sullo scambio di merci non può essere mantenuta, utilizzandola come strumento neutrale per l’organizzazione dell’abolizione dello sfruttamento, in quanto lo sfruttamento stesso è intrinseco a questa forma. Pashukanis assume così una posizione chiaramente antigiuridica: la lotta per la trasformazione è sempre lotta contro la forma giuridica. È inevitabile che la forma giuridica resista anche a lungo: ma questa sua resistenza deriva dal fatto che resistono comunque anche i rapporti di scambio di equivalenti, o, meglio, alcuni rapporti continuano a conservare la forma di uno scambio di equivalenti. A resistere, quindi, è sempre il diritto borghese: non si tratta della trasformazione del diritto borghese in una nuova forma giuridica “proletaria”.

Pashukanis fa riferimento al Marx della Critica del Programma di Gotha. Immaginiamo che i mezzi di produzione appartengano già a tutta la società e che i produttori non si scambino i loro prodotti: i rapporti di mercato sono stati cioè integralmente sostituiti da rapporti di organizzazione. In questa situazione, lo scambio mercantile è soppresso. Il lavoro individuale non entra più a far parte del lavoro complessivo in modo indiretto attraverso la legge del valore e il rapporto di scambio, ma è organizzato in modo diretto. Anche in questo caso, ricorda Pashukanis sulla scorta del Marx del Programma, il principio che dominava nello scambio di equivalenti di merci, pur completamente trasformato nella forma e nel contenuto, continua però a sussistere come principio della distribuzione. Ogni produttore “riceve dalla società uno scontrino da cui risulta che egli ha prestato tanto lavoro (dopo la detrazione del suo lavoro per I fondi comuni, e con questo scontrino ritira dal fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto costa il lavoro corrispondente”, ricorda Pashukanis sempre citando la Critica al Programma di Gotha. Sono “le macchie della vecchia società dal cui seno essa è uscita” che non possono essere eliminate nella nuova società, persino dopo la soppressione completa dello scambio mercantile (Pashukanis 1964: 104). Perché questo principio di distribuzione possa essere definitivamente superato, occorre che sia definitivamente superato il rapporto di equivalente, sopravvissuto alla stessa soppressione della divisione in classi: in altri termini, sottolinea Pashukanis, occorre che il lavoro non sia più un mezzo di sussistenza. La forma del rapporto di equivalente sarà superata solo

Quando con lo sviluppo multiforme degli individui si accresceranno altresì le forze produttive, quando ciascuno lavorerà spontaneamente secondo le sue capacità o, come dice Lenin, “non farà calculi alla Shylock per non lavorare mezz’ora più di un altro” (Pashukanis 1964: 105).

È vero che l’astrazione della forma giuridica è l’astrazione determinata che corrisponde ad un certo stadio dei rapporti di produzione, quello della società capitalistico-mercantile. La sua forma, però, seppure in evidente tensione con la trasformazione sia della forma che del contenuto del principio dello scambio di equivalenti, continua a sussistere fino a quando l’organizzazione del lavoro conserva un analogo di quel principio. La forma giuridica che sopravvive non è una forma giuridica “alternativa”: è l’unica forma giuridica pensabile, che è quella che dà forma allo scambio, seppure ora si trovi a sopravvivere dopo il superamento dello stesso scambio capitalistico-mercantile. La posizione di Pashukanis è evidentemente e consapevolmente “antigiuridica”: l’insistere sulla sopravvivenza del diritto borghese, nella sua forma giuridica, borghese perché formale, anzi direttamente borghese in quanto diritto, vuole evitare ogni idealistica eternizzazione della forma giuridica, ogni possibilità di pensare che la forma giuridica possa essere riempita di altri contenuti e fatta funzionare al di fuori del rapporto capitalistico. La polemica diretta è ovviamente contro i sostenitori della necessità di un diritto proletario nella fase di transizione: se è necessaria, e fin quando è necessaria, la mediazione giuridica, a produrla non potrà essere che la forma ereditata dalla società dello scambio di merci. Proprio i “rivoluzionari” che pensano di dover costruire un diritto proletario cadono nel peggiore giuridicismo. Essi finiscono per proclamare “l’immortalità della forma giuridica giacché [questo orientamento] tende a sottrarre questa forma a quelle condizioni storiche che ne determinarono la piena fioritura e a dichiararla capace di un perpetuo rinnovamento” (Pashukanis 1964: 103). La polemica con quei giuristi sovietici che aspiravano a una scienza giuridica proletaria non potrà allora che diventare durissima: Stuchka, inizialmente su posizioni non lontanissime, finirà per individuare nelle posizioni di Pashukanis una sopravvalutazione della forma giuridica borghese, e una sostanziale incapacità di indagare i contenuti materiali, di classe, che determinerebbero il sistema giuridico (Stuchka, 1988: 223; Bernie, Sharlet, 1980: 20-23). Vyshinsky (1954: 53-57; Bernie, Sharlet, 1980: 34-37), molto più duramente riterrà Pashukanis un traditore della Rivoluzione, un’apologeta del diritto borghese e lo accuserà di aver ridotto il diritto al diritto privato (critica significativamente parallela a quella mossa da Hans Kelsen), e di rendere impossibile la costruzione del nuovo diritto sovietico: Pashukanis ridurrebbe il diritto dello Stato sovietico a semplice espressione di nuda forza politica, e ne negherebbe l’autonomia scientifica. Eppure, dal punto di vista di Pashukanis, sono proprio queste posizioni a essere formaliste: mancando di un’analisi della specificità della forma del diritto borghese, finiscono per pensare il diritto come una forma neutra, adattabile a qualsiasi interesse di classe (Stuchka), o come un complesso di norme piegabili alla volontà di qualsiasi soggetto e utilizzabili per qualsiasi scopo politico (Vyshinsky).

La posizione di Pashukanis, al contrario, proprio per il rigore con cui tiene fede alla precisa determinazione materiale dell’astrazione giuridica in quanto tale, non può che identificare il diritto solo ed esclusivamente come la forma dello scambio di equivalenti. Fino a quando c’è una qualche forma di quello scambio, ci sarà diritto: diritto borghese, perché altro non ce n’è. Il “diritto” delle società precapitaliste si spiega soltanto come primo momento della formazione della forma giuridica moderna, che si dispiega pienamente poi solo nella società capitalistica-mercantile: è sempre l’anatomia dell’uomo a spiegare quella della scimmia, quindi la forma giuridica quale si sviluppa nella società capitalistico-borghese permette di comprendere la forma giuridica che appare, ancora in embrione, per esempio nella società romana. Allo stesso modo, il diritto “che viene dopo” la società capitalistico-mercantile è una sopravvivenza ideologica, sempre più incapace “di coprire e velare i rapporti sociali da cui è sorta” (Pashukanis 1964: 107). Un’ideologia morente, insomma, anche se, come sappiamo, per Pashukanis le ideologie sono comunque astrazioni concrete e determinate: anche quando non coincidono più con i rapporti sociali che le hanno generate, conservano una capacità formativa reale. Ma, nella transizione, questa capacità formativa, proprio perché, come la commodity-exchange theory spiega, è l’analogo della società dello scambio di merci, non può essere “utilizzata” a scopi proletari: è una sopravvivenza, una “macchia” che non può essere subito eliminata, ma che certo non va benedetta. Non ci sono nuove forme giuridiche da creare, ma solo da accelerare per quanto possible l’estinzione della forma giuridica in quanto tale: “Marx concepiva la transizione al comunismo sviluppato non come transizione a nuove forme di diritto, ma come estinzione della forma giuridica in generale, come liberazione da quest’eredità dell’epoca Borghese, destinata a sopravvivere alla borghesia stessa” (Pashukanis 1964: 105, tr. it. modificata).

Estinzione del diritto, quindi, contro impossibili, già per definizione, nuove forme del diritto: è una posizione evidentemente molto dura contro ogni socialismo di stato4. Ancora di più, si intravvede, “in filigrana”, come scrive Negri, la critica non solo del socialismo di stato ma anche di qualsiasi teoria del capitalismo monopolistico di stato. Leggere il diritto come astrazione determinata relativa alla forma stessa dello scambio borghese spiazza evidentemente qualsiasi tentazione di utilizzazione della forma giuridica come strumento per l’organizzazione proletaria: lo Stato non è un neutro di cui ci si può impadronire. Nella critica bisogna girarci attorno, vederlo nella sua difficile relazione con il momento della costruzione giuridica, ma sapere che lo sfruttamento è già nella forma giuridica stessa, pur non escludendo dalla critica il difficile rapporto tra questa forma e la violenza dura ed “eccezionale” del comando. Nell’organizzazione delle lotte, deve restare chiaro, con il Lenin di Stato e rivoluzione che resta ovviamente per Pashukanis un riferimento privilegiato, che lo Stato non può essere occupato e riutilizzato: esso va estinto, come va estinta l’intera forma giuridica.

L’estinzione del diritto tra amministrazione delle cose e lotta di classe

Pashukanis quindi è evidentemente un antidoto a una troppo facile pacificazione tra strumenti giuridici e lotte: non “altre forme di diritto”, ma estinzione del diritto. Non a caso è stato riletto come un modo di tornare a una radicalità di atteggiamento nei confronti dell’adozione di “vie giuridiche” alle lotte, da chi ha voluto mettere in guardia dai rischi per le lotte di essere neutralizzate dentro una sorta di nuovo formalismo giuridico o di nuovo istituzionalismo. Più radicalmente, è stato letto come l’antidoto ad ogni ‘marxismo giuridico’, ad ogni conciliazione tra lotta di classe e forma giuridica5. Questa radicalità del ‘momento Pashukanis’ ha evidentemente molti meriti, soprattutto di rottura netta nei confronti delle peggiori sintesi di marca socialista tra stato, diritto e centralizzazione della produzione. Del resto, lo Stato socialista e il suo gemello centralizzatore tardocapitalista erano gli obiettivi effettivi del pensiero di Pashukanis. Se la nettezza con cui configura la transizione come terreno dell’estinzione e non della conservazione sotto mentite spoglie della forma giuridica, ha evidente forza critica contro lo statualismo e le varie forme di feticismo del diritto che possono nascere anche all’interno delle lotte, occorre però analizzare meglio cosa significhi per Pashukanis il processo di estinzione del diritto, come avvenga, quale ne sia il motore. Un’analisi critica del modo di Pashukanis di intendere l’estinzione del diritto può infatti permetterci di rivedere l’idea di un’opposizione netta tra “estinzione del diritto” o invenzione di “nuove forme di diritto”. In altri termini, a certe condizioni l’estinzione del diritto non toglie del tutto, come invece vorrebbe Pashukanis, spazio per l’immaginazione di nuove forme istituzionali. Il “diritto del comune” potrebbe non essere colpito dall’interdetto di Pashukanis.

Cosa intende, allora, Pashukanis per estinzione del diritto? Qui il discorso del giurista si fa meno lineare: sembrano confondersi due concezioni molto diverse dell’estinzione del diritto, difficilmente conciliabili.

Una prima interpretazione vede l’estinzione del diritto come una conseguenza lineare delle forze produttive. Inizialmente, come abbiamo già visto, la forma giuridica permane, perché, anche dopo la conquista del potere politico da parte del proletariato, “finché il compito di costruire un’economia pianificata unitaria non sarà assolto resterà in vita la connessione mercantile tra singole aziende e gruppi di aziende e dunque resterà in vita anche la forma giuridica” (Pashukanis, 1964: 177).

Ma questa regolazione dei rapporti attraverso la forma giuridica, o, in altre parole, attraverso la sopravvivenza degli strumenti contrattuali, finisce con il tempo, grazie al progredire della pianificazione organizzata della produzione come della distribuzione, per essere sostituita da un sistema di regolazione diverso, di natura tecnico-amministrativa. Due tendenze quindi che si sovrappongono per un periodo, ma che infine si risolverebbero nel prevalere della seconda. La regolazione giuridico contrattuale, forma analoga alla circolazione delle merci e sopravvissuta allo scomparire della società capitalistico-mercantile, viene progressivamente soppiantata da una regolazione sociale diretta, non mascherata nella forma contrattuale. La regola di diritto cede allora il passo alle prescrizioni “dirette”, come dice Pashukanis: più precisamente, a direttive tecniche, che compongono una programmazione a carattere decisamente ingegneristico, una pianificazione altamente tecnocratica e dai tratti, diremmo oggi, decisamente “postpolitici”.

Evidentemente, questa descrizione dell’estinzione del diritto nella gestione tecnico-economica della società rispecchia un certo ottimismo, e probabilmente anche una buona dose di illusione, sullo sviluppo delle capacità produttive e della programmazione centralizzata in URSS nella prima metà degli anni Venti: una buona fiducia avanguardista nel comunismo come prodotto dell’elettrificazione, molto più che dei soviet, per ricordare il motto leninista. Rispecchia anche quell’evoluzionismo, di marca quasi socio-positivista, che molti hanno voluto leggere in Pashukanis6. È evidente che, in parte, l’opposizione allo “Stato proletario” o al capitalismo di Stato è qui fondata su una certa vicinanza alla tradizione socialista dell’autoamministrazione della società come processo di autoregolazione tecnica, alla formula positivista di Saint Simon che vede l’estinzione del governo politico appunto nell’ “amministrazione delle cose”. In sintesi: in questo approccio, estinzione della forma giuridica significa deperimento della forma giuridica grazie all’accrescersi della capacità tecnologico-industriale e al relativo passaggio dalla forma giuridica del contratto alla regolazione tecnica degli standard e delle direttive.

È essenziale però non ridurre a questa sola lettura lineare, evolutiva e positivista il tema dell’estinzione del diritto. C’è infatti in Pashukanis anche un’altra lettura che deriva dalla considerazione del rapporto tra forma giuridica contrattuale e stato, tra rapporto giuridico e processi di centralizzazione: o, per dirla con la lettura di Negri, per la introduzione, accanto alla forma giuridica del tema del comando. La dimensione verticale dello sfruttamento della forza lavoro, dell’estrazione del plusvalore non è infatti assente in Pashukanis, anche se sembra il più delle volte nascosta dall’analisi dello sfruttamento come prodotto della stessa eguaglianza giuridica e conseguenza del rapporto giuridico tra soggetti eguali. Questa dimensione del comando riemerge, però, continuamente come conflitto tra la forma giuridica “pura”, cioè nella forma contrattuale analoga allo scambio di merci della società mercantile-capitalistica, e il processo di accentramento progressivo in capo allo Stato. Per Pashukanis, resta fermo, ovviamente, che il diritto è solo quello privato, come lamentava Kelsen (1955:89-93): ma questo non significa che il pubblico non ha alcun ruolo. Significa che il pubblico, lo Stato, non è il luogo pacificato e ultimo della regolazione complessiva della società: non costituisce dall’alto verso il basso lo spazio della proprietà, come nelle letture classiche che incentrano l’analisi del fenomeno giuridico sulla Legge e sulla Sovranità; al contrario, dipende originariamente dalla proprietà, ma innesca una dinamica intrinsecamente contradditoria. Il riconoscimento reciproco dei soggetti giuridici, infatti, chiama costantemente in causa la presenza di un’autorità garante. Eppure, ripete in molti modi e in tutta coerenza Pashukanis, questa autorità è dal punto di vista della teoria giuridica completamente esterna. Ed è esterna perché è radicata in un rapporto di dominio: in quel rapporto di sfruttamento che non è riducibile all’orizzontalità dei rapporti tra liberi proprietari, ma è dominio di fatto, comando perché lo sfruttamento si renda possibile e diventi stabile. Lo Stato è comando esterno all’organizzazione: ma qui non nel senso che esso sia destinato a deperire nell’organizzazione tecnica della società, quanto perché esso resta elemento durissimamente conflittuale, e assolutamente inconciliabile con lo stato di diritto. Non evoluzione e deperimento: qui l’estinzione del diritto diventa, evidentemente, l’espressione di una contraddizione insita nella relazione tra logica dello scambio e logica del comando. Sottolineando fortemente questa relazione impossibile tra scambio e autorità, tra organizzazione e comando, e, in ultimo, tra forma giuridica e Stato, Negri ha potuto leggere in Pashukanis l’estinzione del diritto appunto come campo di contraddizione, piuttosto che come processo di evoluzione/deperimento.

Inoltre, ed è determinante, questo campo di contraddizione è soggettivamente agito: la relazione tra forma giuridica e Stato è esattamente il nodo in cui in Pashukanis appare decisiva la lotta di classe (Negri 2012: 262-263). Lo Stato è sempre comando esterno alla forma giuridica, e non è mai integrabile in nessuna teoria giuridica completa: una teoria giuridica dello Stato è, per la borghesia, la perfetta utopia, perché vorrebbe dire riuscire a connettere alla forma giuridica del contratto con il comando sovrano. Cosa di cui si incaricherà la teoria giusnaturalista, tutta tesa a fare emergere logicamente il pactum subjectionis, la sottomissione al comando, dal pactum unionis, dal rapporto tra soggetti. Ma tra valore di scambio (per Pashukanis, l’unica vera sostanza di cui il diritto è espressione e forma) e comando (lo Stato, per Pashukanis dominio sempre esterno alla relazione giuridica), non c’è mediazione possibile. E ogni mediazione tentata, che sia lo Stato capitalista occidentale, prodotto dell’accentramento della funzione di comando, oppure lo Stato proletario che, in questi termini, è solo una mistificazione ideologica che si dà nella transizione, si rompe proprio grazie all’impatto della lotta di classe. La lotta di classe costringe il comando ad emergere in tutta la sua radicale esternità rispetto alla logica dello scambio, come “garante” violento di uno sfruttamento che non si esaurisce nel mondo del valore di scambio, ma che si impone per creare quelle condizioni di espropriazione del plusvalore che il mero rapporto di scambio presuppone, ma non riesce a mantenere. Lo stato di diritto come forma giuridica dello scambio termina, scrive Pashukanis, nel momento in cui l’irruzione della lotta di classe costringe il comando statuale a manifestarsi in tutta la sua violenza, ma anche in tutta la sua radicale esternità alla misura del rapporto giuridico.

Quanto più instabile divenne il dominio della borghesia, tanto più compromettente si fece quella correzione e tanto più rapidamente lo “Stato di diritto” si trasformò in un’ombra incorporeal: finché, da ultimo, un eccezionale inasprimento della lotta di classe non costrinse la borghesia a metter da parte la maschera dello Stato di diritto e a metter a nudo l’essenza del potere come violenza di una classe sull’altra (Pashukanis, 1964: 198).

La lotta di classe rompe ogni pretesa sintesi giuridica: rompe lo Stato capitalista e monopolista, così come nella transizione, rompe ogni pretesa di Stato proletario, riportando il comando alla sua esternità di dominio. Ogni tentativo di proprietà sociale va abbandonato sotto la pressione separatrice della lotta di classe: la proprietà sociale è solo un altro modo di organizzare lo sfruttamento. Non ci sono ponti “giuridici” da calare tra la logica dei proprietari privati, che è la vera logica giuridica, logica dello scambio, e la logica – violenta – del comando, puro dominio di fatto in mano allo Stato. L’antigiuridicismo di Pashukanis si riafferma: il diritto è solo il diritto borghese. Ma qui l’estinzione di questa forma giuridica borghese diventa un campo di battaglia, una contraddizione aperta all’irrompere della lotta di classe, e al suo separarsi da qualsiasi pretesa “sintesi” giuridificante, statualista e socialista.

Il diritto del comune

Recapitoliamo: l’estinzione del diritto ci presenta una doppia possibilità. O l’estinzione è concepita come una progressiva erosione della forma giuridica, che deperisce progressivamente per lasciar spazio alla gestione economico-tecnologica della società. Qui prevalgono l’evoluzionismo e il progressismo positivista, la norma fondamentale diventa la linearità dello sviluppo. Seconda opzione: l’estinzione del diritto è il campo aperto della lotta di classe. La lotta di classe estingue il diritto rendendo impossibile la sintesi mistificata dello stato capitalista come dello stato proletario. Pubblico e privato, autorità e scambio, organizzazione e comando riproducono continuamente un dualismo non sintetizzabile, attraversato dalla lotta di classe, che urta contro qualsiasi stabilizzazione delle relazioni di scambio, e prova continuamente a distruggere i dispositivi di appropriazione gratuita del plusvalore, nascosti dietro la logica egualitaria del diritto e dello scambio. La lotta di classe risponderà sempre, davanti ad ogni diritto “alternativo” che provi a riversare un nuovo contenuto di classe dentro la vecchia forma giuridica, con una separazione da queste sintesi ideologiche. Ma una volta rotta la pretesa di monopolio giuridico e statuale che pretende di occupare in modo ferocemente socialista tutto il campo della transizione, quest’ultima resta un campo di contraddizione, antagonistico e attraversato dalle soggettività di classe.

L’estinzione del diritto ci si è presentata anche come campo antagonistico attraversato dalla soggettività di classe. In questo senso, si apre la possibilità che l’estinzione del diritto, cioè la trasformazione radicale al di là del diritto proprietario, si attui anche attraverso l’organizzazione di dispositivi di riappropriazione che segnano la fase della transizione. E che questi dispositivi, proprio perché soggettivamente animati e costituiti, non siano assimilabili a semplici residui della logica del diritto borghese, o macchie provvisorie di cui l’estinzione finale del diritto dovrà liberarci, come sembra a volte suggerire Pashukanis.

Anche per Pashukanis, infatti, la lotta nella transizione, quando si libera dall’eccessiva linearità positivista che riduce l’estinzione del diritto a graduale deperimento attraverso la programmazione tecnica e le direttive, torna sempre ad essere un campo dualistico e antagonistico. Questo antagonismo incontra però in Pashukanis sempre un limite: il dualismo resta ristretto alla lotta tra la pretesa pubblica e statuale, che si rivela sempre più esterna, dominio di puro fatto e violenza, da un lato, e, dall’altro lato, le capacità riappropriative dei soggetti privati, i possessori di merci, che restano pur sempre gli unici soggetti che abitano il mondo di Pashukanis. E allora la lotta di classe non può che assumere un tono solo destituente e distruttivo: certo una distruzione importante, perché si tratta della lotta contro la pretesa di rifondare una mistifica unità di organizzazione e di comando attraverso la truffa di una forma giuridica socialista, quello che mai Pashukanis smette di denunciare. Ma le cose cambiano, e questo senso solo destituente della lotta per l’estinzione può essere superato, se immaginiamo la lotta per l’estinzione del diritto aggiornata ad oggi, ai tempi della socializzazione diffusa e cognitiva della produzione. Quando i soggetti non sono più le maschere che si producono all’interno dello scambio, i centri di imputazione dei valori di scambio, ma hanno incorporato gli stessi mezzi di produzione, quando i soggetti sono nodi di una produzione socializzata e cooperativa, il dualismo si anima di una logica non solo destituente: non è più solo una lotta contro l’inasprirsi del comando, ma anche una attività di riappropriazione socializzabile e collettivizzabile7. L’estinzione del diritto non ha più allora nulla di lineare: e se continua a lottare contro ogni mitologia giuridica, ogni statualismo, ogni adorazione di un improbabile diritto socialista, lottare per estinguere il diritto significa ora anche sperimentare la riappropriazione di funzioni di comando. Non si tratta di nuove forme giuridiche, in quanto della forma giuridica si cerca a buona ragione solo l’estinzione, ma nuove forme organizzative e creazione di contropoteri, all’interno di un dualismo che la lotta di classe impedisce sempre di richiudere, distruggendo di volta in volta ogni pretesa di rifondazione di un diritto unitario, socialista o proprietario.

Possiamo ora sintetizzare le prospettive che abbiamo incontrato attraverso Pashukanis. In primo luogo: una concezione tecnologica e lineare dell’estinzione del diritto. Se il comune è inteso esclusivamente come l’organizzazione complessiva delle forze produttive, il diritto del comune coinciderà con i dispositivi di regolazione di questa organizzazione. È il sogno tecnocratico sotto una maschera comunarda: un comune generato immediatamente dall’evoluzione delle forze produttive. Il comune è in assoluta continuità con l’evoluzione delle forze produttive all’interno del capitalismo: il diritto del comune non è altro che l’amministrazione del post-capitalismo. È il sogno oggettivista ed evolutivo che anche Pashukanis ha sognato. Estinzione del diritto e diritto del comune qui coincidono perfettamente: la forma giuridica borghese deperisce nella gestione tecnologica della cooperazione sociale.

In una seconda prospettiva, il diritto del comune – o, meglio, in questo caso, il diritto dei commons – è identificato con la creazione di istituzioni non proprietarie. È la logica dell’atto istituente, che produce usi qualificati8, autoistituzionalizzazione della società, secondo lo sviluppo delle tradizioni mutualistiche e cooperative. Sul piano politico, produce una logica dualistica, contrassegnata dal permanere di funzioni di comando accanto alla produzione di nuove modalità di autorganizzazione e di autogestione. Il diritto del comune qui si produce, in modo interstiziale, tra il pubblico e il privato, liberando spazi ed esperimenti di riappropriazione nel segno della proprietà sociale. La logica istituente apre spazi di esperimento di nuova forma giuridica, che possono trasformare, secondo una logica del dentro e contro, il diritto borghese. Il diritto del comune si presenta qui piuttosto come innovatore della logica istituzionale e della forma giuridica, separandola dal contenuto proprietario: l’estinzione del diritto è relegata al campo dell’utopia. Il rischio è quello di riprodurre una logica istituzionalista, che libera spazi pluralistici ma che non produce una trasformazione complessiva, arrestandosi ad un equilibrio tra diritto proprietario e spazi di diritto dei commons, mancando così il passaggio al piano del diritto del comune al singolare. La partita qui si gioca tutta con l’incontro con le trasformazioni produttive: o, in altri termini, sulla costruzione di un effettivo rapporto tra questi esperimenti istituzionali e le lotte per la riappropriazione.

Questo incontro è quello che può aprire efficacemente la terza prospettiva: il diritto del comune si sviluppa nel campo antagonistico della lotta di classe. La riappropriazione coinvolge l’intera cooperazione sociale, e la creazione di beni comuni, e di un relativo diritto dei commons, viene utilizzata per produrre il piano complessivo del comune. L’istituzione qui coincide con l’attività di programmazione delle capacità cooperative: anche qui si ricorre ad una logica dell’amministrazione, oltre la proprietà privata e il comando statale, ma l’amministrazione delle capacità cognitive, intellettuali, affettive non ha nulla a che fare con il sogno positivistico dell’”amministrazione delle cose”. Le istituzioni del comune sono però sperimentate in una logica però apertamente dualistica e attraversata dalla lotta di classe. La pluralità delle istituzioni del comune non è semplicemente interstiziale, tra pubblico e privato, ma è finalizzata alla creazione di contropoteri, che creano un principio di legittimazione altro e irriducibile rispetto al diritto privato e al diritto statuale. Così intesi, il diritto del comune e l’estinzione del diritto sono due aspetti della trasformazione rivoluzionaria. L’estinzione del diritto segna il momento di scontro e di destabilizzazione rispetto a qualsiasi figura giuridica dello sfruttamento, pubblica o privata, è l’aspetto principalmente negativo e destituente della lotta di classe; il diritto del comune segna il momento riappropriativo, di produzione di un più alto livello di cooperazione, di invenzione di contropoteri duraturi, sebbene sempre parziali e aperti alla trasformazione.

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  1. Evgeni Bronislavovic Pashukanis (1891-1937) studia presso l’Università di San Pietroburgo e poi a Monaco. Rientra in Russia nel 1914: legato al partito bolscevico, prende parte alla Rivoluzione di Ottobre. Nel 1920 è membro del commissariato del popolo per gli affari esteri, come consigliere giuridico. Vice presidente dell’Accademia comunista, vi organizza con P.I. Stuchka la sezione di teoria generale del diritto e dello Stato. Nel 1924 pubblica la sua opera principale, The General Theory of Law and Marxism. Ricoprirà molti incarichi pubblici e parteciperà ai progetti per il nuovo codice penale, ma sarà progressivamente emarginato con l’avvento dello stalinismo, e in particolare sarà oggetto di critiche feroci da parte di A.J. Vyshinsky, il procuratore generale al tempo dei processi staliniani. Scompare improvvisamente nel gennaio del 1937, per mano dei servizi segreti. Sarà “riabilitato” dal PCUS nel 1956. 

  2. Altre volte chiamata commodity form theory of law. L’origine di questa terminologia è incerta e non appartiene a Pashukanis (Koen 2011: 115, 27n.). 

  3. Il privilegio della circolazione è inoltre inevitabile, giacché Pashukanis elabora una teoria generale della forma giuridica: la forma (astrazione) riguarda il momento dello scambio e della circolazione, proprio in quanto astratto dal processo produttivo in generale: spiega bene il punto Koen (2011). 

  4. Vyshinsky dichiara brutalmente qual è la posta in gioco fondamentale: queste interpretazioni della transizione indeboliscono l’autorità dello Stato nel momento in cui ci sarebbe bisogno di intensificarla. Dire che il diritto sovietico non è altro che diritto borghese ‘recepito’ è, per Vyshinsky, una posizione sostanzialmente anarchica, di cui Pashukanis è portatore: “the withering away of the state will come not through a weakening of the state authority but through its maximum intensification.” (Vyshinsky, 1953: 62). Dal canto suo Pashukanis, pur con alcuni addolcimenti formali, resterà fermo nell’essenziale: come scrive nella risposta a Stuchka, nella premessa alla seconda edizione della General Theory, “l’altro rimprovero che mi fa il compagno Stuchka e cioè che io riconoscerei l’esistenza del diritto soltanto nella società borghese, lo accetto, ma con certe riserve”(Pashukanis, 1964: 86). 

  5. Con particolare riferimento al caso italiano, e ai giuristi vicini al Partito Comunista Italiano, L. Nivarra, (2015): Pashukanis qui è usato contro ogni possibilità di marxismo giuridico. 

  6. Per un Pashukanis evoluzionista e realista, cfr. Guastini (1971). 

  7. Sull’apertura di questo nuovo senso affermativo della riappropriazione, Cava (2014: 24). 

  8. Sul comune come prodotto di attività istituente, e sull’uso come amministrazione del comune, sono fondamentali le ricerche di Paolo Napoli (2014).