di ROBERTA POMPILI e TIZIANA TERRANOVA. Nel suo corso sulla biopolitica, Michel Foucault commentava come il ‘pubblico’ più che mediare tra governo e società civile costituisce la superficie o pellicola attraverso cui il governo liberale si sforza di agire sui comportamenti della popolazione. Se i governi di oggi sono sempre di più non luogo di mediazione ma diretta espressione degli interessi del capitale finanziario o comunque finanziarizzato (banche, fondi di investimento, società per azioni) che ci si presentano sempre di più come creditori (economici e morali) che ci chiamano a ripagare i nostri ‘debiti’ (o colpe) allora si tratta di capire in quali termini questa espressione si traduca nelle pratiche comunicative di tele-governance e come sia possibile intervenire su questo terreno con nuove forme di auto-governo della comunicazione.

In questi anni si è parlato molto di ‘tecnopolitica’, cioè di come  la rete Internet, ed in particolare i social media, siano diventati i  nuovi luoghi di produzione di opinione, affetti e idee sul mondo, ma, come ha sostenuto con forza Pablo Iglesias  in un recente articolo apparso sulla New Left Review(http://newleftreview.org/II/93/pablo-iglesias-understanding-podemos), la  costruzione di senso, discorso e egemonia culturale passa ancora molto  per la televisione. I talk show in particolare sono identificati da Iglesias come vere e proprie fucine di produzione di senso comune e come tali appaiono anche nelle conversazioni, strutturalmente frammentate, dei media sociali. Questo corto circuito di rimpalli (televisione, web, carta stampata) è quella che chiamiamo convergenza mediatica. Le persone sono continuamente immerse nel flusso comunicativo, non meno che nel flusso della vita quotidiana e in particolare le recenti tecnologie (palmari, tablets, smart phones, TV digitale, file-sharing) hanno amplificato la potenza di circolazione di immagini e suoni. Le nuove pratiche di visualizzazione, in particolare hanno a che fare con la modificazione dei luoghi della visione tradizionale- non più solo la casa- e del tempo, possiamo osservare sequenze e prodotti televisivi e non scaricati su you tube il giorno dopo, o registrati. La convergenza tecnologica è anche convergenza emozionale poiché il consumo dei media si situa dentro un processo collettivo, ed è sempre una esperienza che viene condivisa e socializzata, anche laddove la fruizione sembra individuale.

In  un suo classico testo su Il linguaggio dei nuovi media dei primi anni 2000, già Lev  Manovich sosteneva come la strutturale centralità logica del database  nel funzionamento dei media digitali richiedesse in qualche modo una  logica compensativa, cioè quella della narrativa. Forse non è un caso  che sia la televisione a rappresentare, nella tendenza dei media a  ‘convergere’ sottolineata qualche anno fa da Henri Jenkins, questo  desiderio di narrativa – come si può vedere anche nella rinnovata  popolarità del formato della serie televisiva fruita via Internet. . Il caos comunicativo della comunicazione produce forse, come sostenevano già Deleuze e Guattari, una dipendenza dai ritornelli, piccoli ombrelli di senso comune che non raramente rimandano a vere e proprie (false, va da sé) narrazioni tossiche: i rifugiati che vengono pagati 80 euro al giorno, i delinquenti dei centri sociali e le loro illegali occupazioni, la necessità ineludibile di tagliare la spesa per pagare il debito pubblico, il reddito di cittadinanza come una nuova forma di assistenzialismo inadatta all’incivile e godereccio sud.  Quella caratteristica operazione di costruzione di ‘folk devils’ (demoni popolari) che l’inglese Stanley Cohen aveva individuato agli inizi degli anni settanta, è diventata quasi meccanismo automatico di produzione di informazione, reinventandosi e sviluppandosi nel contesto della comunicazione transmediale. Per esempio in questi giorni agitati che precedono il referendum greco, con la paura del contagio che potrebbe causare un rifiuto dell’austerity in popolazioni che finora sono state più docili, i media mainstream (TV, grandi testate web, carta stampata) continuano a raccontare la storia di una Grecia irragionevole e corrotta che si è irresponsabilmente indebitata, sull’orlo della bancarotta con scene di panico quotidiane, debitamente bloccando le immagini delle grandi manifestazioni per il no che circolano sui pochi canali autonomi e sulle piattaforme di social media. Il demone di turno su cui aizzare la folla è il cittadino greco che va in pensione a 57 anni (informazione smentita ripetutamente sul web), rimproverato da Bruno Vespa l’altro giorno nel suo programma serale: “Suvvia noi andiamo in pensione più tardi!” (noi chi? ci verrebbe da replicare)

Se la televisione è stata l’interfaccia che ha permesso ai governi di modificare non individualmente ma statisticamente (come si addice a un medium di governance biopolitica) l’anima delle popolazioni, allora dovremmo ricordarci come in Italia la costituzione di una utenza televisiva nazionale ha preceduto la scuola dell’obbligo. Durante il periodo fordista, bisognava “uniformare” la lingua e linguaggi e così costruire i cittadini “italiani”, una unificazione per nulla neutra che si realizzava in continuità con il progetto di stato-nazione della borghesia e le sue regole di mercato. L’utilizzo della televisione nel primo periodo fordista, se ha significato la produzione di “buoni cittadini” lo ha fatto dal momento che ha comportato la cattura del tempo fuori della fabbrica stessa: ad ogni famiglia spettava in una “equa” ripartizione un salario, una macchina ed un televisore. Ed ogni famiglia voleva dire innanzitutto una donna a casa al lavoro per tutti (figli, marito e anziani), cioè lavoro riproduttivo domestico. Per questo la storia della televisione è andata di pari passo con la costruzione della casalinghità femminile, della produzione del binomio spazio pubblico maschile-spazio domestico femminile, così come la critica femminista dei media ha da lungo tempo messo in luce.

Sulla potenza comunicativa di quella forma di cattura del tempo-movimento che dal cinema si era spostato con il televisore nella dimensione privata delle nostre case molto si è scritto. Con Stuart Hall, la scuola dei cultural studies ha evidenziato, ad esempio, come la televisione sia un ‘apparato ideologico’, non una semplice tecnologia che trasmette con i suoi testi alcuni “messaggi”, ma una vera e propria forma culturale attraverso cui sono negoziate e riprodotte le relazioni sociali e che mettono in scena una vera e propria produzione di soggettività. Ma la televisione ha abbandonato da tempo il vecchio progetto pedagogico fordista per trasformarsi in uno spettacolo di intrattenimento. Di certo la “neotelevisione”, questa continua commistione di stili che fa saltare i generi classici del passato (come l’infotaiment), è legata alla necessità di catturare l’attenzione dei soggetti mediatizzati, singolarità sempre più individualizzate dopo la rivoluzione del telecomando e dello zapping, contemporaneamente all’ingresso prepotente della televisione commerciale nello scenario comunicativo. Più di recente la digitalizzazione chiama tutti, “l’audience” alla partecipazione attiva, ad intervenire nell’arena comunicativa come protagonisti (chat, forum collegati…) a co-produrre la comunicazione.

Nella contemporaneità, come si è detto da tempo, la produzione preminentemente immateriale ha colonizzato tutti gli spazi di vita, la comunicazione, gli affetti, la conoscenza: tutto è al lavoro. Non c’è più un fuori dal processo produttivo, un supposto spazio esterno di “mediazione” politica, tutto è immediatamente riassorbito e messo a valore. Maurizio Lazzarato ha di fatto raccontato molto bene il successo dell’uomo imprenditore, comunicatore e politico Silvio Berlusconi. Nessuna truffa o inganno, da svelare, con buona pace di Travaglio e di tutti gli “antiberlusconiani”, nella storia di questo imprenditore se non la strutturale condizione di corruzione che attraversa con modalità diverse, ma da sempre, la storia del capitalismo. Berlusconi per un po’ ha incarnato proprio questa stretta relazione tra televisioni, immagini, politica ed economia, e ha semplicemente capitalizzato da un punto di vista politico (processo di verticalizzazione) le enormi possibilità che il mezzo televisivo gli offriva, da un punto di vista della notorietà, visibilità e spettacolarità. Non solo da attento comunicatore Berlusconi ha utilizzato metafore calcistiche e linguaggi televisivi riuscendo ad entrare per un lungo tempo nella quotidianità delle persone che con lui spesso si sono identificate. Lezione che i politici sembrano oggi tutti avere imparato a padroneggiare, dal premier Renzi, a Grillo (ex personaggio televisivo), a Salvini.

Non ci appartiene il dibattito che ha fatto il suo tempo che oppone la televisione pubblica (lottizzata dai partiti) a quella commerciale (ed è evidente che ormai distinguerle oggi e pressoché inutile). Osserviamo piuttosto come lo stile della televisione sia intrinsecamente cambiato e che abbia sussunto all’interno della vetusta cornice nazional -popolare -oggi sempre più esplicito frame di un aggressivo populismo di destra- lo stesso desiderio di agentività, di capacità di lavoro e di produzione del comune (la partecipazione!) ritraducendole nella cornice neoliberale delle molteplici cittadinanze di consumo. I quiz, i talk show, le serie tv, i siparietti alla Striscia la notizia, nondimeno che la pubblicità, ogni cosa concorre a costruire da un punto di vista dell’immaginario modelli normativi e prefigurati di soggettività, facendo leva principalmente sulla capacità dello spettacolo televisivo di suscitare “emozioni” e di fare circolare ‘affetti’. Il rapporto corpo a corpo che si instaura con i personaggi televisivi viene molto bene descritto dall’antropologa Abu-Lughod che ha raccontato come in questa complessa relazione emotiva, il soggetti mediatizzati tendano ad identificazione con situazioni comuni, narrando la propria esistenza ugualmente come una storia melodrammatica. Se la capacità di comprendere ragionamenti astratti è declinata attraverso quei processi di de-alfabetizzazione a cui le varie riforme della scuola e dell’università hanno attivamente contribuito, la capacità di recepire e raccontare storie è aumentata.

Parassitare l’interfaccia e re-inventare l’auto-governo della comunicazione

Per diverso tempo la riflessione dei militanti si è soffermata ad analizzare le potenzialità di internet e della rete, per produrre un punto di vista autonomo sulla realtà sociale. Questa tendenza forse si collega anche alle forme di disaffezione dal mezzo televisivo che hanno attraversato con un certo snobbismo la sinistra come ha in questo sito anche ben descritto Carlo Freccero, e da cui ci ha messo in guardia molto tempo fa lo stesso Raymond Williams. Se la televisione è sempre più uguale ad internet ed internet alla televisione quello che è importante è acquisire una idea differente ed allargata della rete (quale essa è) in quanto risultato di plurime convergenze tecnologiche, piattaforme e processi culturali. La televisione ed i suoi prodotti tornano, dunque, al centro del nostro interesse, dal momento che la capacità attrattiva della narrazione audiovisuale è più avvincente e riesce a costruire fidelizzazione con la ripetizione del format e della serie, entrando nella quotidianità delle persone in un rapporto emozionale rassicurante.

Già in un intervento di qualche anno fa scritto nelle concitate giornate delle rivolte tunisine, Toni Negri commentava sulla necessità di introdurre quando pensiamo a nuove forme di costituzione che siano in grado davvero di incidere e di riflettere sulle esigenze della nostra contemporaneità, una qualche forma di diritto alla comunicazione, o meglio di vedere nella comunicazione uno dei pilastri sostenuti da una costituzione materiale del comune. In Spagna, i compagni e le compagne di Podemos hanno rimesso al centro della propria ricerca la gestione dei flussi comunicativi, nello studio delle serie tv e dei format televisivi, dell’affettività e delle ripetizioni, costituendo una interessante esperienza sperimentale di verticalizzazione politica.

Il successo di Podemos alle urne è anche il risultato di un lungo lavoro di riappropriazione della interfaccia televisiva. Come Iglesias racconta, un piccolo team (dieci/venti persone) negli anni si è occupato di costruire un rapporto con la televisione, che passa in primo luogo per la trasmissione La Tuerka – un vero e proprio talk show in cui il formato della intervista a due (quale per esempio quello praticato da Lucia Annunziata in Italia) viene recuperato con un sapiente uso dei linguaggi televisivi mainstream, ma con contenuti e ospiti che mai riuscirebbero a trovarvi un posto. Si tratta di una strategia abbastanza diversa da quella storicamente messa in atto dalla sinistra antagonista: più che mobilizzare e galvanizzare un pubblico già in qualche modo precostituito, sperando anche in qualche modo di catturare e fidelizzare i margini di quel mondo, qui si è evidentemente cercato di fare breccia nella ‘maggioranza’ imitando e parassitando i linguaggi della comunicazione televisiva mainstream.

Uno dei nodi della comunicazione televisiva mainstream è la sua tendenza a catalizzare il pubblico rispetto a dei ‘personaggi’, che possono al limite essere quasi caricaturali. Iglesias parla della costruzione di sé stesso come di un vero e proprio personaggio televisivo in grado anche di trovare spazio nella medesima televisione di massa, diventando in questo modo un simbolo riconoscibile (quello col codino) di un altro discorso ‘indicibile’ dal punto di vista del discorso sull’austerity imposto dal capitale finanziario, da tradurre in risultati elettorali.  Questo risultato, nelle intenzioni di Podemos, dovrebbe poi combinarsi con strutture partecipative decentrate (tecnopolitica), locali ma anche digitali, costruendo una nuova forma di democrazia. Iglesias suggerisce che sebbene i media sociali appaiano come luoghi di produzione orizzontale di discorso, in questa orizzontalità la televisione in primo luogo, ma anche grandi testate giornalistiche con una forte presenza su Internet agiscono ancora come catalizzatori di opinioni e senso comune.

Sulla scia della recente catastrofe del partito laburista alle elezioni inglesi, Neil Lawson ha scritto un lungo articolo sul sito di opendemocracy.net (https://www.opendemocracy.net/neal-lawson/downfall) in cui enfatizza l’isolamento totale del partito laburista non solo rispetto alle classi lavoratrici che esso originariamente intendeva rappresentare, ma anche rispetto ai movimenti intellettuali e politici della società inglese. Anche rispetto al New Labour di Tony Blair, che ebbe l’audacia di mettere al lavoro le intuizioni degli studi culturali sui cambiamenti della società inglese, i laburisti post-blair sembrano aver rotto i ponti con qualsiasi forma di pensiero più radicale, allineandosi, come il ‘nostro’ Partito Democratico alla ripetizione più supina delle parole chiavi neoliberali (concorrenza, mercato, scelta, competitività). L’attuale assetto del rapporto media-politica in Italia è assestato su simili linee. I ricchi, documentati e complessi discorsi prodotti nel circuito informale dei movimenti italiani (centri sociali, università nomadi, esperienze di auto-formazione) sono completamente esclusi dallo spazio televisivo. Se e quando vi appaiono lo fanno in veste subalterna a dei formati e delle narrative che già predeterminano, come ebbe a dire Pasolini ripreso recentemente da Maurizio Lazzarato (http://www.republicart.net/disc/representations/lazzarato01_en.htm) , quello che può e non può essere detto. L’esperimento di La Tuerka consiste nell’imitare e reinventare un format televisivo ‘domestico’ come il talk show piegandolo a nuove voci e nuove prospettive, rendendo dicibile e condivisibile in un linguaggio familiare i saperi e i discorsi che i movimenti sociali contro l’austerity e i nuovi fascismi hanno elaborato. Si tratta dunque di un intervento non subalterno su quel campo del ‘popolare’ che in Italia è stato sperimentato su scala locale, ma con effetti molto potenti, da Mauro Rostagno negli anni ottanta.

In un recente episodio di un altro popolare programma televisivo, Un giorno in pretura, abbiamo recentemente avuto modo di sentire delle testimonianze sulla forza prorompente dell’esperimento con la televisione locale di Mauro Rostagno in una piccola, ma strategica cittadina siciliana, Trapani. Una cosa è sapere in maniera generica che Mauro Rostagno, ex militante di Lotta Continua, è stato ucciso dalla mafia per i suoi programmi televisivi in cui esponeva le complicità tra mafia, politica, e massoneria nel derubare le casse comunali e controllare l’economia, un’altra è sentire le testimonianze sulla enorme popolarità delle trasmissioni di Rostagno, sulla forza del nuovo linguaggio televisivo che aveva inventato. Una cosa è raccontare la morte di Rostagno come quella di un giornalista scomodo ucciso dalla mafia, un’altra è sentire gli echi della forza della sua popolarità nella descrizione del macellaio che interrompe la vendita per ascoltare la trasmissione del ‘barbuto’. Rostagno non è stato ucciso solo perché era un giornalista, ma perché era popolare, cioè diffuso, ascoltato, socializzato, recepito e accettato. Abbiamo tanto da imparare ancora da Rostagno, perché non venga ridotto a un’altra icona sacra dell’anti-mafia e il suo discorso antropologico sulla civilizzazione del Sud, e restituito alla dimensione politica e culturale innovativa che gli compete. L’apertura dell’archivio televisivo di Rostagno è una risorsa preziosa e indispensabile, a cui pare il collettivo siciliano di antropologi televisivi, Malastrada, stia già lavorando.

E purtuttavia, non siamo più negli anni ’80, in quella breve finestra che permise non solo alle radio locali, ma anche alle TV locali una certa sperimentazione e apertura, e la televisione oggi è un medium che ha subito una mutazione irreversibile. Permane, moltiplicato, il suo potere suggestivo, quella capacità quasi-ipnotica della luminescenza televisiva su cui Guattari insisteva, nella diffusione di schermi nelle case, ma anche nelle piazze e nelle strade delle città, nei suoi locali di ristorazione e intrattenimento. L’interfaccia televisiva si è distesa ben oltre le mura domestiche, è diventata mobile, ma anche pubblica e perché no in qualche modo anche ‘comune’. La sua funzione di produzione di soggettività, oggi come allora, eccede ampiamente quella della comunicazione esplicitamente politica dei talk show specializzati per diffondersi attraverso le storie raccontate da soap opera, fiction e reality, ma anche dallo sport. Come ha sostenuto recentemente lo studioso inglese Will Davies (http://www.uk.sagepub.com/booksProdDesc.nav?prodId=Book240650), il concetto neoliberale di ‘competizione’ – con le sue regole, il suo prefiggersi di produrre delle ‘ineguaglianze’, le sue classifiche e arbitraggi – a cui tutti oggi siamo soggetti, trova nello sport, prima ancora che nel mercato la sua espressione ideale. E’ sempre alla televisione, e alla sfera del domestico, che la produzione di senso comune sulla sessualità, sulla famiglia, sui generi e sulla razza si produce. La televisione è schizofrenica nel senso deleuzoguattariano della parola, essa delira e il suo delirio non è sovrastrutturale ma interno al funzionamento della produzione. Riprendendo e mutando le tesi di Leopoldina Fortunato, il lavoro della televisione, come quello delle donne nella sfera domestica, è un lavoro direttamente produttivo dei comportamenti che permettono a un capitalismo finanziarizzato e spettacolarizzato di funzionare. Se la televisione delira, ed è quindi per sua natura immaginifica, la rete, invece, cogita come se i deliri della televisione fossero ripresi in un tentativo paranoico di verifica di un ordine nascosto ma ricostruibile di un mondo troppo complesso per essere totalizzato. Le credenze culturali, sociali e politiche che chiamiamo opinioni si affrontano sulla rete con una veemenza che tocca nervi scoperti quando diverse concezioni del mondo si scontrano o giustappongono senza comporsi.

Dopo la grande stagione di sperimentazione degli anni 80 (TV locali) e 90 (telestreet, collettivi di produzione televisiva indipendente), è ora di ripensare come riprenderci l’interfaccia televisiva non solo per modificare le idee, opinioni e affetti delle moltitudine interconnesse, ma per farle crescere in autonomia e intelligenza. Il problema che abbiamo è come contrastare la presa (affettiva e discorsiva) che le grandi narrazioni tossiche televisive hanno sulla popolazione. L’antagonismo che vogliamo esprimere rispetto a queste narrazioni tossiche va riversato in nuove forme ‘popolari’ di comunicazione, capaci di fare presa sulle anime senza passare attraverso linguaggi eccessivamente rivolti verso l’interno o verso delle soggettività antagoniste già precostituite. Dobbiamo usare tutta la nostra potenza immaginifica per parassitare reinventando sia le forme della comunicazione ma anche le sue tecniche e tecnologie.

Se la televisione nell’era della convergenza si è espansa e diffusa, è possibile per esempio immaginarla come una specie di infrastruttura diffusa che è vero presenta grandi concentrazioni di risorse (la TV pubblica e commerciale) ma allo stesso tempo anche una capacità in eccesso che può essere in qualche modo messa in comune? Quella capacità della rete di massimizzare e regolare le risorse che per Morozov costituisce una nuova forma di ‘regolazione algoritmica’ (http://www.theguardian.com/technology/2014/jul/20/rise-of-data-death-of-politics-evgeny-morozov-algorithmic-regulation), può essere dirottata in qualche modo? Parassitare la televisione, imitandone i linguaggi in modo tale da diventare più fruibili e comprensibili, bypassare quella grande interdizione sui punti di vista ‘eretici’ rispetto alla grande fede neoliberale nel mercato, nella competitività, nel debito, nella xenofobia e nell’austerity, per costruire nuove narrazioni e nuove parole d’ordine; ma anche parassitare l’infrastruttura diffusa della comunicazione, la rete oltre Internet, le televisioni locali, i canali digitali oltre a YouTube e lo streaming. C’è una capacità in eccesso presente nelle reti convergenti che un po’ come quella abitativa e mobile mobilizzata da applicazioni orientate al profitto come Uber e Airbnb può essere utilizzata in un altro modo? Possiamo pensare insieme ad una comunicazione autonoma che passa attraverso la tattica del parassitaggio e dell’imitazione, per cristallizzare quel passaggio fondamentale che va dalla tele-governance all’auto-governo della comunicazione?

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