di FRANCESCO FERRI.

 

Cambio di rotta. Diamo appuntamento a tutti i cittadini presso Piazzale Democrate (nel quartiere Tamburi) per una fiaccolata che si dirigerà verso l’ingresso dello stabilimento Ilva con l’intento di prendere parola e confrontarsi con i lavoratori, recita il testo che introduce al corteo promosso dallo spazio sociale Officine Tarantine, con ampia convergenza di soggettività e collettivi, per la serata del 30 giugno.

Il contesto nel quale nasce la mobilitazione è chiaro quanto inquietante. Stop alla strage di Stato, basta con il mostro d’acciaio! è l’incipit del documento di convocazione della mobilitazione. Nel dettaglio, il desiderio di rimettersi in cammino e manifestare la propria indignazione davanti ai cancelli della grande fabbrica nasce in seguito all’ennesimo incidente mortale, questa volta ai danni di Alessandro Morricella, giovane operaio travolto dalla ghisa all’interno dell’altoforno 2.

L’esigenza diffusa di prendere parola nei pressi di uno degli ingressi dell’Ilva e di confrontarsi con i lavoratori è alla fine disattesa: l’eterogeneo corteo è rimasto confinato all’interno del quartiere Tamburi, per poi trasformarsi in tarda sera in un momento di confronto pubblico in Piazza Gesù Divin lavoratore (sigh!).

Il suggestivo e ambizioso progetto di sfilare, per numerosi e complicati chilometri, accompagnati dalla tenue luce delle fiaccole, alle pendici del mostro d’acciaio, per poi giungere agli ingressi della fabbrica ed incrociare gli operai che escono ed entrano nello stabilimento, non è andato in porto.

Per questa volta, ad impedire la mobilità del corteo non sono intervenuti né gli apparati securitari, né i dispositivi amministrativi di contenimento e divieto. Più che di repressione, si è trattato di buonsenso: le strade a scorrimento veloce che il corteo, secondo il piano originario, avrebbe dovuto percorrere, in direzione delle portinerie dello stabilimento siderurgico, trafficate quanto buie, erano nei fatti impraticabili. Curioso paradosso di una fabbrica costruita nelle immediate vicinanze del quartiere Tamburi, che mostra alla città il tetro scenario dei parchi minerari e nasconde i punti di accesso allo stabilimento.

La cronaca del giorno dopo racconta, quindi, la storia di un incontro mancato, programmato e incompiuto. Questo appuntamento disatteso sembra essere un’efficace metafora del complicato rapporto tra le soggettività operaie e il disomogeneo universo del precariato urbano. In ogni caso, il tema dell’incontro tra le soggettività subalterne che, dentro e fuori lo stabilimento, subiscono le conseguenze della crisi ambientale e sociale che avvolge la città può, nelle contraddizioni del presente, aprire inediti scenari.

Produzioni urbane. Facendo i conti con la realtà, per un’efficace politica dell’incontro il palcoscenico Ilva è tutt’altro che lo scenario ideale. Immaginare di intraprendere percorsi di reciproca comprensione dei bisogni e di traduzione delle rispettive prospettive politiche alle porte del siderurgico è suggestivo quanto improbabile. L’estetica potente e minacciosa dell’immenso stabilimento è un contesto talmente invadente da trasfigurare gli attori e modificare irrimediabilmente il senso della rappresentazione. In aggiunta, il sequestro senza facoltà d’uso dell’altoforno nel quale è avvenuto l’ultimo spaventoso incidente mortale è, ancora una volta, il segno complessivo dell’insanabile frattura che separa l’Ilva e Taranto.

10998_a26124Se si spostasse l’attenzione, per una volta, dalla fabbrica alla città, nel tentativo di costruire percorsi di incontro tra operai e cittadinanza, per provare a leggere le difficoltà del presente con le lenti dei diritti sociali in rapida evaporazione, quale risultato politico potrebbe venirne fuori?

Si tratterebbe di sperimentare nuove linee di fuga per trasformare ciò che tutt*, dentro e fuori la fabbrica, siamo stati negli ultimi anni. In fondo, le soggettività operaie e il precariato urbano (ulteriormente) impoverito, in tema di Ilva, cos’hanno da dirsi? Quasi nulla, se l’unico oggetto del contendere è un continuo dibattito ideologico sui destini dell’azienda. L’immagine di Taranto associata ad un cumulo di macerie verosimilmente caratterizzerà il futuro della città – con e senza Ilva – qualora il costante referendum pro o contro lo stabilimento continuerà a monopolizzare l’agenza politica cittadina, finendo per escludere il tema dei diritti di esistenza – l’abitare, il reddito, l’appropriazione degli spazi, accessibilità ai saperi, ecc – dal lessico delle mobilitazioni.

Se lo slogan Operai e precari uniti nella lotta! ha l’evitabile un retrogusto di nostalgico e retorico, anche lo schema nazionale della coalizione sociale risulta, a queste latitudini, con ogni evidenza assolutamente impraticabile. Non c’è di che disperarsi: ci sono inedite forme di coalizioni possibili, a partire dalle reali potenzialità del tessuto urbano e dal portato esperienziale all’interno dei movimenti, estendendo lo sguardo a tutti gli eterogenei esperimenti di organizzazione politica alternativa attivi in città.

Alla ricerca di prospettive e linguaggi aperti e inclusivi, un ampio ragionamento collettivo all’interno del tematica del reddito può risultare, in questa fase, davvero uno strumento utile, verificando la sua potenziale capacità liberatoria nei confronti dei dispositivi di controllo delle vite delle soggettività subalterne, operaie e non. A condizione, però, di praticare una decisa discontinuità rispetto al recente passato – assumendo prospettive meno ideologiche, evitando la riproposizione di battaglie di idee, sperimentando invece solidi dispositivi di ancoraggio della tematica all’ambivalente quotidianità cittadina.

Il contesto, appunto, sembra mutare rapidamente, intorno ad alcune significative novità: la fine ingloriosa del decennio con Vendola presidente, il disfacimento di tutte le organizzazione politiche di diretta o indiretta emanazione vendoliana e il cambio di governance dello stabilimento, con lo Stato tornato protagonista nella gestione degli impianti accompagnano il passaggio ad una fase di ulteriore aggravamento della crisi sociale ed economica ionica (accanto alle vicende legate ai grandi stabilimenti dell’area industriale, si pensi alla situazione di grande difficoltà legata alle attività portuali, o alla vertenza in piedi nel comparto dei call center, ad esempio).

L’ampiezza delle sfide aperte e il livello di difficoltà che il contesto comporta suggeriscono, con alterne fortune, di volgere lo sguardo verso il passato, alle partecipatissime ed incompiute mobilitazioni dell’estate/autunno 2012: un’operazione che, più che nel campo della proposta politica, rientra in quello della nostalgia.

Alle attuali condizioni, non si tratta più di organizzare forme di resistenza, più o meno efficaci, nel campo di battaglia ideologico in tema di ambiente e fabbrica, né tanto meno di farsi travolgere dalla tendenziale monotematicità dei temi ambientali che finiscono per cannibalizzare la residua agenda politica – che davvero residua, soprattutto a queste latitudini, non sembra davvero essere . Si tratterebbe, più che altro, di sperimentare nuovi modi di vivere la città, dentro e contro la crisi ambientale e sociale, nella direzione di un superamento congiunto di entrambe, edificando le solide basi per una stagione di movimento aperta, inclusiva, eterogenea e plurale, che guardi al conflitto e alla lotta come strumenti indispensabili per trasformare radicalmente il tessuto urbano.

La gente decente e l’opzione democratica. Stiamo parlando di una possibilità reale? Il tema dell’incontro tra soggettività diverse, uno dei punti focali che ha caratterizzato il corteo del 30G, sembra lavorare in questa direzione. foto corteo

Questa inedita possibilità va ricercata nella stessa composizione del corteo, con la presenza sì delle figure storiche dell’ambientalismo locale, ma soprattutto – in maniera assolutamente maggioritaria – di un elevato numero soggettività ibride, giovani e giovanissime, tendenzialmente caratterizzati da un’ampia disponibilità al dialogo, all’incontro, provenienti dal variegato mondo della liberazione degli spazi, capaci negli ultimi anni di svecchiare il lessico della trasformazione e di innovare, in maniera generosa ma non risolutiva, le pratiche di riappropriazione nel tessuto urbano.

Il campo d’azione a partire dal quale è necessario sperimentare nuove esperienze di movimento è ben rappresentato dallo striscione di apertura del corteo: Fermare la produzione, Fermare la strage!! A partire da questo prospettiva, è possibile programmare una politica dell’incontro con le tante soggettività che hanno un punto di vista divergente, praticando insieme il linguaggio del conflitto e del diritto a trasformare la città, a partire dalle condizioni materiali di vita in riva alla Ionio, nel segno dell’apertura e dell’inclusione.

In aggiunta a quanto detto, l’urgente sperimentazione di dispositivi organizzativi all’altezza del potenziale moltitudinario del presente rappresenta una sfida non più rinviabile. In questo senso, è necessario cogliere le suggestioni che provengono da altri luoghi, anche in tema di esercizio collettivo del potere dentro la città. Non si tratta – banalmente – di fare come a Barcellona o Madrid ma, più realisticamente, di lasciarsi contaminare dagli esperimenti organizzativi e dai dispositivi di costruzione di nuove istituzioni aperte e partecipate, facendosi liberamente suggestionare dalle innovazioni nel linguaggio, dalla creatività organizzativa e dalla politica della potenza democratica delle moltitudini spagnole e greche.

Come farlo? È necessario ripartire dalla composizione del corteo del 30G, per andare rapidamente oltre: i livelli incredibilmente alti di disoccupazione, giovanile e non, e le forme di precarietà estreme che caratterizzano una considerevole parte delle soggettività che in questa fase più si mobilitano, impongono di volgere rapidamente lo sguardo al tema dell’uguaglianza dentro le condizioni attuali, e alla rivendicazione dei diritti di cittadinanza adeguati alla contingenza, contro le vecchie e nuove povertà, che suggeriscano un’agenda politica sovrapponibile per le soggettività dentro e fuori la fabbrica. In aggiunta, bisogna aprire un’ampia discussione intorno alla forma classica del fare movimento – il corteo – valutando le potenzialità e i limiti di questo strumento, mettendo a verifica la possibilità di sperimentare altri dispositivi di mobilitazione e partecipazione, più dinamici, creativi, attraversabili.

Se l’obiettivo è l’organizzazione politica del 99%, la logica quella del basso vs alto, subalternità vs elites, ogni parzialità e ogni culto delle identità, anche di movimento, è, mai come adesso, un ostacolo più che un’opportunità.

Sperimentando, invece, nuove forme di connessione nel rapporto tra orizzontalità dell’organizzazione e il piano verticale di sfida alla governance, mettendo in discussione i tradizionali dispositivi di partecipazione – anche quelli dei movimenti – l’opzione democrazia reale può rappresentare davvero un’ipotesi concreta, a patto che il nucleo centrale di questa nuova fase di mobilitazioni sia abitato dalla moltitudine di gente decente che abita i quartieri e vive le contraddizioni della città dei due mari, con tutto il portato ibrido di speranze, desideri e bisogni, superando lo schema classico e inattuale della sommatoria dei collettivi e delle sigle sindacali e di movimento: per trasformare la città bisogna tuffarsi in essa.

Bisogna ripartire dalla critica dell’economia politica dell’acciaio, ma anche dalla critica dell’economia politica delle illusorie promesse di ricchezze a venire dopo la chiusura dello stabilimento: in questa nuova fase, che l’inedita politica dell’incontro sembra aprire, possiamo permetterci di prefigurare l’organizzazione di coalizioni moltitudinarie che, anche da Taranto, siano in grado di sfidare le regole di funzionamento del mondo che finora abbiamo conosciuto.

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