Di SANDRO CHIGNOLA

Una crescente letteratura mette al lavoro, anche in Italia, uno «sguardo logistico» sui rapporti di capitale. Esso permette di cogliere non solo le ristrutturazioni della geografia delle filiere produttive e le trasformazioni da quest’ultime indotte sull’articolata stratigrafia delle forme contemporanee dell’accumulazione, ma anche i molti e diversificati livelli sui quali il capitale incontra resistenze e si trova costretto a modulare selettivamente le sue operazioni. Tra i più recenti contributi sul tema, vale la pena considerare la ricerca che ha prodotto il volume collettivo che esce ora per la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli (Ultimo miglio. Lavoro di piattaforma e conflitti urbani, a cura di Maurilio Pirone, Quaderni 48, 2023; scaricabile qui).

Sono almeno tre le cose che questo lavoro offre all’attenzione del lettore. La prima riguarda le profonde trasformazioni indotte dalla logistica (in particolare, dalla cosiddetta logistica dell’ultimo miglio: quella con la quale chiunque si trova a confrontarsi ogni volta che riceva un pacco da Amazon o si veda consegnare un pasto ordinato per mezzo di una app) sulla forma-città. La seconda concerne l’ambivalenza delle pratiche attraverso le quali si è imposto, con un’accelerazione incrementale a partire dalle due crisi successive scandite prima dallo scoppio della bolla speculativa del 2008 e poi dalla pandemia, il particolare regime di subordinazione del lavoro vivo che, con una formula felice, è stato chiamato di «imprendicariato» (in particolare: dei riders). La terza è relativa alle specifiche di «eteromazione» imposte, dal capitalismo di piattaforma, al lavoro digitale, e alle lotte, organizzate anche per mezzo di significative sperimentazioni di sindacalismo sociale, che le hanno affrontate.

Per quanto attiene al primo punto, Niccolò Cuppini e Mattia Frapporti segnalano come un processo decisivo, un processo che si è venuto plasticamente evidenziando durante la pandemia, quando i lavoratori della logistica dell’ultimo miglio si sono ritrovati ad essere inclusi nei servizi riconosciuti come «essenziali», il divenire-hub delle città. Se è vero che la rivoluzione logistica implica, da sempre, la riarticolazione delle dimensioni spaziali delle reti produttive in un complesso e articolato intreccio – talvolta una diretta sovrapposizione – di globale e locale, è vero anche che, sul piano di massima prossimità nel quale quelle dimensioni impattano il processo di produzione, essa comporta anche una drastica riorganizzazione della fabbrica sociale. L’avvento del paradigma tecno-economico dell’algoritmo, che concerne tanto i nuovi processi di organizzazione del lavoro, quanto i modelli di governo dei contesti socio-istituzionali all’interno dei quali i primi trovano collocazione, contrassegna e orienta la genesi della metropoli-piattaforma (Ugo Rossi: «La città e le società urbane in senso più ampio sono utilizzate dalle grandi corporation tecnologiche e dalle start-up emergenti come “laboratori viventi” per la valorizzazione economica delle tecnologie digital-algoritmiche»). Quanto qui rileva, in particolare, è l’esaurirsi delle logiche di investimento sui territori quali potenziali incubatori di sviluppo e l’uso degli stessi, piuttosto, per l’estrazione diretta di valore dai dati, dal consumo, dagli affitti brevi. Basti pensare alle trasformazioni indotte da piattaforme come Justeat, Deliveroo o Airbnb. La valorizzazione capitalistica non si realizza più nella semplice produzione di merci – secondo la logica estensiva del comando fordista che nella città progettava una fabbrica –, ma si allarga sino al consumo, dato che una merce non venduta è un mancato profitto. Anche per questo è particolarmente significativo che una grande multinazionale come Amazon si stia microfisicamente riterritoralizzando con l’acquisto di magazzini e di imprese di consegna: l’ultimo miglio e il ridisegno della città come hub di flussi sono un obiettivo strategico del capitalismo di piattaforma; un capitalismo «predatorio», le cui ambizioni vanno accelerando e la cui configurazione complessiva deve essere interrogata, inchiestata e contrastata, anche per gli effetti che esso determina sugli assetti dei territori nel quadro di crisi della fiscalità generale dello Stato. Gli investimenti infrastrutturali richiesti dalla grande distribuzione dipendono da logiche che non sono quelle tradizionali dello sviluppo, ma che rispondono, piuttosto, a complesse logiche di volatile finanziarizzazione, che finiscono con l’essere incentivate dai poteri locali che ne facilitano il dispiegamento.

Il secondo dei motivi che rendono utile la lettura del libro riguarda le caratteristiche particolari del digital labor. Quanto qui rileva – ed è un dato che è possibile evincere dall’impasto tra algoritmi e comando del lavoro vivo tanto nei livelli più apparentemente rarefatti del processo di digitalizzazione (Amazon non potrebbe ottenere i propri saldi di profitto e di continua innovazione, senza l’oscuro lavoro dei data miners o degli operatori del mechanical turk sparsi per il globo), quanto in quello più immediatamente evidente nella fatica dei riders che percorrono gli spazi urbani o dei facchini nei magazzini della logistica – è l’esaurirsi dello schema binario che, nel fordismo dispiegato, permetteva di classificare il lavoro come autonomo o come subordinato. Quelle che proliferano, sono forme di continua ibridazione che Federico Chicchi e Marco Marrone non esitano a definire mostruose: «Le figure lavorative emergenti nei contesti digitali (e i rider del food delivery in modo particolare)», essi scrivono, «si pongono infatti tendenzialmente e intrinsecamente a cavallo dei vincoli classici del lavoro dipendente e sempre di più sono costretti ad assumere, assieme ad alcuni precisi vincoli di subordinazione gestiti per lo più dall’algoritmo, compiti e mansioni caratterizzati, come nella attività d’impresa vera e propria, da una assunzione personale del rischio produttivo». Se è vero che le piattaforme veicolano molto spesso una cultura imprenditoriale del lavoro che trova nelle città soggetti disponibili a farsi catturare –  si tratta della retorica del lavoretto, della competizione, della possibilità di incrementare il proprio reddito con la quale vengono presentate le mansioni da esse offerte –, è anche vero, come emerge dai dati di conricerca presentati in particolare da Maurilio Pirone, Annamaria Donini e Marco Forlivesi, che il lavoro materialmente svolto dai riders espone profili inediti. Da questo punto di vista, intercettando il desiderio di fuga dalla subordinazione espresso perlomeno dalle due ultime generazioni, il capitalismo digitale mette al lavoro non soltanto processi di organizzazione del lavoro volti alla definitiva destrutturazione del rapporto salariale fordista, ma tende a generalizzare e ad accelerare, anche per mezzo delle nuove tecnologie, un regime lavorativo imperniato sulla disponibilità dei lavoratori a svolgere prestazioni sempre più intensificate e frammentate. Sul rovescio dell’autoimprenditorialità di massa (meglio: dell’«autoimpresizzazione precaria», come qui si dice) emergono così nuove forme di rapporto salariale strutturate attorno a inusuali, e del tutto paradossali, convenzioni individuali che, di fatto, finiscono con il reintrodurre il cottimo o, nelle sue forme più attuali ed estreme, una sorta di salario prestazionale.  

È su questo punto che è possibile raggruppare alcuni degli spunti ulteriori offerti dal volume. Le trasformazioni indotte dalla digitalizzazione del lavoro colte sotto le specie della proliferazione tecnologica e organizzativa delle app negli ultimi decenni e, in particolare, a partire dalla recente pandemia, possono essere colte nella loro irreversibilità e nella loro ambivalenza. Da un lato, esse possono essere reindirizzate in senso partecipativo e democratico – Mayo Fuster Morell, Ricard Espelt e Melissa Renau Canu elaborano una matrice delle qualità democratiche delle piattaforme volta a problematizzare lo statuto delle stesse, spesso colte solo come i grandi «Unicorni» monopolistici, per considerare invece gli aspetti di sheer economy coinvolti in modelli circolari, organizzati dal basso in forma cooperativa (esperimenti significativi in questo senso si danno a Berlino, Crow; Barcellona, Mensekas; Parigi: CoopCycle, case studies analizzati in un capitolo del libro) –, dall’altro possono essere forzati i limiti dell’eterorganizzazione. Il contributo di Emiliana Armano, Daniela Leonardi e Annalisa Murgia, così come altri, mettono in luce gli aspetti di combinazione attiva che il neotaylorismo digitale opera tra algoritmi e capacità umana vivente, cercando di sciogliere a proprio favore l’ambivalenza implicita in queste formule di composizione del lavoro vivo. D’altro canto, la continuità delle lotte dei riders e i processi di autorganizzazione sindacale che esse hanno sedimentato – sottoposti a inchiesta da Pirone, Donini e Forlivesi – dimostrano come anche su questo terreno i processi di cattura che attraversano il digital labor non siano stati e non possano essere lineari e definitivi. Uno dei meriti del libro è quello di gettare una luce non soltanto sulle fratture che incrinano, anche dal punto di vista organizzativo, il liscio ronzare della macchina algoritmica, ma anche sulle dinamiche di soggettivazione politica e di lotta del lavoro vivo che, anche in questa particolare composizione migrante e imprendiprecaria, rendono difficile la loro neutralizzazione. Se una cosa manca al volume, ma questo riguarda chiunque lo legga e tutti noi, sono linee politiche per rendere, quella neutralizzazione, di fatto impossibile.

Questo articolo è stato pubblicato anche per ADL-Cobas.

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