di GIUSEPPE COCCO

Cominciando dalla fine

Il bilancio del mondiale di calcio è catastrofico per la già debole democrazia brasiliana e si riassume bene con l’operazione di polizia e magistratura lanciata a Rio de Janeiro il 12 luglio, alla vigilia della finale. Una trentina di mandati di arresto “temporanei” (totalmente arbitrari) eseguiti con brutale dispiegamento di forza; i 19 attivisti catturati hanno ricevuto il trattamento di pericolosi banditi: mobilitati aerei e elicotteri e poi trasportati nella suggestiva “Città della Polizia” dentro i cassoni di jeep scoperte, circondati da poliziotti incappucciati e armati fino ai denti. Le prove sono volantini, striscioni, giornali e perfino libri, oltre alla presenza nelle reti sociali. Il Partito dei Lavoratori (PT) si è reso conto della pericolosità della svolta e, con alcuni giorni di ritardo, ha pubblicato una condanna formale dell’operato di polizia e magistratura dello Stato di Rio de Janeiro. Il governo corrotto e di estrema destra dello Stato di Rio (alleato ambiguo al governo federale) sembra deciso a usare discrezionalmente la repressione per pacificare il movimento (altre decine di arresti sono annunciati per i prossimi giorni). Ma il governo Dilma per adesso non riesce a evitare che si affermi la sensazione politica che il PT e i suoi alleati non siano il “meno peggio”, ma lo “stesso peggiore”. Allo stesso tempo, i movimenti post-giugno escono dalle lotte contro il mondiale (il #NaoVaiTerCopa) con grandi sfide: da una parte, si tratta di vedere quanto la repressione brutale e le lotte tutto sommato abbastanza astratte di critica della “coppa” abbiano finito per indebolire il movimento; dall’altra, la spirale repressiva finisce per imporre e facilitare le tendenze avanguardiste che scommettono sul “tanto peggio, tanto meglio”. Schematicamente, la sfida dei prossimi mesi è proprio definita dall’urgenza di consolidare un campo alternativo sia al “meno peggio” (il voto per il PT se questo non rinnova con determinazione la sua apertura al movimento) che al “tanto peggio – tanto meglio” (la tentazione avanguardista). E dipenderà dalla capacità che il movimento avrà di avanzare sul terreno affermativo!

Di che cosa il “NãoVaiTerCopa” era il nome

Il Mondiale di calcio della FIFA è arrivato in Brasile in un clima generale di contestazione e incertezza, senza nessun entusiasmo popolare. Come abbiamo già scritto, prima ancora che cominciasse il Mondiale non ha avuto luogo proprio perché tutta la sua dimensione comunicativa e simbolica non funzionava o funzionava a rovescio. “Não Vai Ter Copa” (non ci sarà Mondiale) è un ritornello nato nelle manifestazioni di un anno fa come critica radicale delle politiche dei mega-eventi e dei grandi lavori pubblici. C’era – e c’è – un nesso preciso tra il ritornello e le condizioni della sua affermazione. Il contenuto del ritornello non era l’obiettivo enunciato, ma la mobilitazione che lo enunciava. Non per niente è nato letteralmente durante le oceaniche manifestazioni semi-insurrezionali di giugno 2013. Molti, anche nel movimento, hanno sottovalutato o dimenticato il significato di questa “nascita”. Il governo e il PT non l’hanno neppure sospettato. È la mobilitazione che spiega il ritornello e non il contrario: le mobilitazioni e i movimenti di giugno hanno affermato con forza – contro il Mondiale e la FIFA – che esiste un altro Brasile e che questo Brasile è costituente e capace di mobilitarsi non per essere il palcoscenico della FIFA ma per costruire nuove brecce democratiche e di uguaglianza. Il “NaoVaiTerCopa” affermava dunque che, se lo Stato brasiliano (in partnership con il Capitale globale) è capace di produrre stadi a costi faraonici (4 dei quali non avranno nessun uso dopo la Coppa), la moltitudine dei poveri è capace di produrre altri valori: un miglior sistema di trasporti, l’urbanizzazione delle favela e, soprattutto, democrazia. Produrre democrazia significa smontare la macchina statale che quotidianamente massacra i poveri, giovani e neri nelle favelas e nelle periferie delle grandi città, gli indigeni nella foresta e i contadini poveri nei campi. Contrariamente a quel che affermavano i responsabili di governo e del PT, la critica al Mondiale non era moralista: non si opponeva in modo manicheo al calcio come nuovo “oppio dei popoli”, ma all’opposizione che il mega-evento e il governo hanno promosso tra il calcio (nel formato del grande spettacolo globale e di una città ancora più segregata di quello che già è) e la democrazia (intesa in senso ampio). Il “NaoVaiTerCopa” è uno dei nomi che la moltitudine ha dato alla sua mobilitazione: cioè alla produzione di altri valori. Niente stadi e ancora meno di stadi solo per i ricchi! Il ritornello era così forte che aveva un nitido impatto sui sondaggi di opinione, con la grande maggioranza della popolazione che appoggiava – alla vigilia dell’apertura – le manifestazioni contro il Mondiale.

Dal non “NãoVaiTerCopa” al “NãoVaiTerProtesto”

Chi invece ha preso il ritornello in termini letterali e pensava proprio che le manifestazioni avrebbero potuto impedire materialmente il mondiale è stato il governo Dilma. All’inizio dell’anno, il governo ha presentato – ampiamente divulgato nelle prime pagine dei giornali – un vasto apparato repressivo e il PT lanciava nelle reti sociali una campagna di forte impronta nazionalista, molto simile alla retorica patriottica che usava la dittatura militare: “Quelli che sono contro il Mondiale sono contro il paese!” I risultati di questa campagna – in termini di opinione – sono stati disastrosi. Il governo si è quindi riorganizzato su tre livelli. Su un primo livello, ha dato alcuni segnali di dialogo (da parte del Segretario Generale della Presidenza, Gilberto Carvalho). Su un secondo livello ha lanciato la mobilitazione dell’esercito, in particolare con l’ulteriore militarizzazione delle favelas di Rio. Sul terzo livello, ha pianificato una mobilitazione generale di tutti i suoi apparati. Il dialogo si è ridotto in linea generale a una mera operazione di marketing: una tournée di “comunicazione” del ministro che, in sedute pubbliche, spiegava i vantaggi mirabolanti del mondiale. Un’unica eccezione: le mobilitazioni massicce di decine di migliaia di senza tetto a São Paulo (organizzati dal MTST), nelle settimane anteriori all’inaugurazione, aprivano il cammino a trattative e alcune conquiste in cambio della non partecipazione dell’MTST alle mobilitazioni contro il Mondiale. Il secondo livello è stato la mobilitazione dell’esercito sul piano nazionale e soprattutto a Rio con l’occupazione militare della grande favela della Maré (sulla strada che unisce il centro di Rio all’aeroporto internazionale). Occupazione militare del governo federale rafforzata da una decisione della Corte Suprema brasiliana in un processo per oltraggio – con base in una legge del 1969, cioè del peggior periodo della dittatura militare – che ha riconosciuto la competenza dei Tribunali Militari a giudicare civili denunciati o arrestati dai soldati. Il governo federale – così come usò a suo tempo l’esperienza di guerra nelle favelas per intervenire a Haiti – adesso usa l’esperienza haitiana per “pacificare” le favelas. Si tratta di un’operazione che ha moltiplicato i conflitti a fuoco e le esecuzioni di giovani nella Maré e in tutte le favelas di Rio (e in tutto il Brasile). Era comunque sul terzo livello che il governo investiva ancora più pesantemente con l’obiettivo di impedire qualsiasi tipo di contestazione grazie a una mobilitazione generale di tutti i dispositivi repressivi disponibili o preparati proprio per l’occasione sotto il coordinamento del governo federale. Da una parte, scuole e università erano chiuse nelle città sedi in occasione delle partite e i giorni nei quali giocava la “seleção” erano decretati festivi a livello nazionale. Dall’altra, era lanciato tutto un menu di misure repressive. A São Paulo, nelle settimane anteriori all’inaugurazione, centinaia di giovani (circa 500) sono stati intimati dalla polizia a presentarsi nei commissariati per interrogatori totalmente politici. Poi, le manifestazioni erano accerchiate o addirittura caricate con violenza estrema da giganteschi contingenti di polizia sin nella piazza di concentramento. Prima o dopo le cariche, la polizia procedeva sistematicamente a ogni tipo di provocazione e intimidazione alternando fermi aleatori di manifestanti con le aggressioni (o gli arresti) ciblés: le donne, gli avvocati, i giornalisti (anche molti stranieri sono stati feriti). Il tutto condito con episodi di tortura psicologica, come il caso di alcuni fermati rimasti per ore nei furgoni della polizia in giro per le città. Per capire la “tortura” bisogna sapere che vi sono migliaia di casi di poveri fermati e un episodio di questo tipo è finito nella stampa di Rio proprio durante il mondiale perché uno dei due ragazzi destinati a questa fine è sopravissuto[1]. L’apice di questa strategia repressiva è stato il vero e proprio assedio dei manifestanti da parte di enormi contingenti di polizia (dotati di tutti i tipi di strumenti repressivi) nelle piazze di concentramento, senza che nessuno potesse più entrare o uscire: a Belo Horizonte, São Paulo, Rio de Janeiro, Fortaleza. Nonostante tutto, le manifestazioni sono continuate in tutte le città-sede e quasi tutti i giorni, anche se con partecipazione sempre più ridotta. Il governo aveva così tanta paura del #NaoVaiTerCopa che ha organizzato una vera e propria operazione di guerra. In modo irresponsabile, ha così reso ancora più labili i già precarissimi confini che in Brasile separano lo “stato di diritto” dal puro arbitrio statale. E così la macchina globale del Mondiale si è messa in moto. Nel giorno dell’inaugurazione, a São Paulo, mentre il migliaio di manifestanti che ha osato sfidare l’apparato repressivo era brutalmente disperso sotto le bombe, le pallottole di gomma e le manganellate, Dilma riceveva un brutale Vaffa’... dai privilegiati tifosi presenti allo stadio. Un’immagine precisa del paradosso di un PT che ha preparato il Mondiale per l’elite neo-schiavista che insiste a non accettarlo.

La macchina dello spettacolo mondiale e il viso di Luiz Felipe

Il governo respirava con sollievo e si lasciava trasportare dall’entusiasmo che l’inizio stesso dello spettacolo più grande del mondo determinava. La macchina semiotica potentissima – migliaia di tifosi stranieri nelle città, i giorni di ferie per vedere il Brasile, la moltiplicazione delle partite – cominciava a funzionare come un vero schiacciasassi che poco a poco riusciva a incrinare l’indifferenza e, in funzione dei seppur timidissimi successi della Seleção, a mobilitare il tifo nazionalista e popolare. Nel bel mezzo della festa il 24 giugno, in pieno mondiale, la Polizia Militare invadeva una favela di Rio (Costa Barros, a pochi chilometri dal Maracanã) sparando – come sempre – all’impazzata con armi da guerra: Luiz Felipe, un bambino di 3 anni, moriva mentre stava dormendo nella sua casa, con il viso dilacerato da una pallottola della Polizia[2]. La foto tremenda del bambino senza viso circola per tutte le reti sociali. Centinaia de abitanti del quartiere elevano barricate, danneggiano o bruciano 12 autobus. Per tutta risposta, la Polizia ferisce due manifestati con spari di arma da fuoco. Il silenzio delle autorità su tutto ciò è assordante. Quando si avventurano a dire qualche cosa, è per dichiarare: “questo non c’entra niente con la Coppa, la violenza della polizia la precede!”[3] Per garantire il mondiale, il governo Federale e il PT non solo hanno aperto la breccia al ritorno delle pratiche repressive della dittatura contro le manifestazioni democratiche, hanno anche opposto apertamente l’interesse del calcio, del “siamo un unico paese insieme alla seleção”, a ogni tipo di rivendicazione sociale, anche alle più garantiste e basiche difese dei “diritti umani”. Ma le manifestazioni non hanno smesso! Il momento più forte è forse stato la manifestazione a Copacabana convocata dal movimento delle favelas “La festa negli stadi non vale le lacrime nelle favelas” o la manifestazione silenziosa contro la repressione, sempre a Copacabana. Poche centinaia di manifestanti, molti vestendo una maglietta “canarinha” (della seleção) con sulla schiena stampato il nome di uno dei tantissimi assassinati dalla polizia e il numero -1: una seleção di poveri assassinati dallo Stato, il tutto in mezzo a migliaia di tifosi di tutte le nazionalità, circondati da centinaia di poliziotti travestiti da Robocop, nel delirio della FIFA FUN FEST e delle partite sugli schermi giganti davanti agli hotel. Era un clima veramente surreale ma non normalizzato.

La paura mangia l’anima

Ed ecco l’umiliante 7 a 1 inflitto dalla nazionale tedesca che avrebbe potuto segnare 10 gol. Sarebbe anche interessante sul piano etnografico e culturale ricostruire la quantità di stupidità formulate a proposito della “catastrofe nazionale” attribuita a questa sconfitta. Adesso il governo passava rapidamente a dire che era “solo” calcio. Più in generale si diffondeva nella stampa la ridicola apologia all’organizzazione tedesca di fronte alla mancanza di “lavoro serio” da parte dei brasiliani, anche nel calcio. Un sacco di stupidaggini! Le “nazionali” di calcio oggi  non hanno praticamente niente di “nazionale” e sono quasi tutte delle squadre globali. Tutti i giocatori brasiliani – comprese le riserve – giocano nei migliori club europei. L’unica spiegazione vera l’ha data, tra pianti e scuse, David Luiz proprio alla fine della partita: è successo qualche cosa d’inspiegabile. L’immigrato marocchino del film di Werner Fassbinder (1973) diceva alla sua compagna tedesca che “la paura magia l’anima”. E non sono stati i giocatori turchi, nord africani e africani della nazionale tedesca a spaventare la seleção. L’anima dei giocatori brasiliani se l’è mangiata l’atmosfera del #NaoVaiTeCopa, un clima di critica generalizzata che si è tradotto in un eccesso di pressione psicologica, una necessità imperiosa di vincere a ogni costo che li ha letteralmente fatti scoppiare. I pianti isterici dopo la qualificazione con il Cile, il canto patetico dell’inno nazionale, il clima di commozione dopo l’infortunio di Neymar: è tutto questo che ha trasformato la selação formata da titolari del Barcellona, del Real Madrid, del Bayern, del Chelsea ecc. in un’imbelle squadretta di rione. Mentre Dilma, insieme all’elite e alla stampa ultra-conservatrice, surfava sul “Mondiale dei Mondiali” e il #NaoVaiTerProtesto, il #NaoVAiTerCopa riappariva dove meno se l’aspettavano, imparabile e definitivo, dentro il campo, nella testa dei giocatori.

La finale

La domenica della  manifestazione contro la finale, a due o tre chilometri dal Maracanã, i 500 manifestanti che hanno osato sfidare lo stato d’assedio sono stati duramente caricati (anche da poliziotti a cavallo con sciabole sguainate), gasati e manganellati per ore in una piazza dalla quale non potevano più uscire. 15 giornalisti, molti di loro stranieri, sono stati feriti. Ecco il grande lascito della “Coppa che non c’è stata”: l’ulteriore  militarizzazione delle questioni di ordine pubblico in un paese dove la polizia ammazza (ufficialmente) in media 5 persone al giorno (senza contare le migliaia di scomparsi) e dove le condizioni di vita nelle prigioni farebbero arrossire i campi di concentramento nazisti. Per il movimento e per la democrazia, il lascito è una sfida: mantenere la breccia democratica aperta.

 



[1] http://www.folhavitoria.com.br/policia/noticia/2014/06/dois-pms-sao-presos-por-morte-de-adolescente-no-rio.html

[2] Bisogna sottolineare che non si tratta di un episodio eccezionale, ma di una routine. Basti vedere questo altro episodio assolutamente uguale, nello Stato della Bahia, il 17 luglio. http://noticias.r7.com/fala-brasil/videos/morte-de-bebe-em-operacao-policial-provoca-revolta-em-cidade-baiana-17072014

[3] Qui si può visitare una pagina di Facebook – con immagini terribili – che ironizza su questa situazione.

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