Di GISO AMENDOLA

Il grande sonno degli impianti di produzione, delle città, del “palazzo degli uffici”, accompagnato dal ronzio del calcolatore che “concede rincotte codifica assume imprime”: la premonizione da Le mosche del capitale di Paolo Volponi è la prima scena del e-book collettivo di Sbilanciamoci!, L’epidemia che ferma il mondo. Economia e società al tempo del coronavirus, curato da Angelo Mastrandrea e Duccio Zola (scaricabile gratuitamente dal sito www.sbilanciamoci.info).

Immagine molto significativa: l’immane interruzione dei ritmi ordinari è al centro delle domande di questo volume. Come in Volponi, le cose però non sono facili, né lineari: va individuato cosa si è interrotto, cosa prosegue o rischia di proseguire a scandire il suo ritmo come fa il calcolatore di Volponi, su quali storie più lunghe incide questa crisi, e, soprattutto, non rinunciare a indagare cosa nella crisi emerge, che programmi elaborare, su quali strumenti e soggetti contare.

L’emergenza coglie il mondo “straordinariamente sguarnito e impreparato”. Eppure, avverte Nicoletta Dentico, un’epidemia è sempre un evento di trasformazione: non giunge inattesa, anzi, mai come in questo caso è stata ripetutamente annunciata.  Neanche l’evidente sorpresa che ha colto il mondo quindi è neutra: non ha nulla di “naturale”, ma ha ragioni radicate nelle scelte politiche, nei modelli di sviluppo, nei rapporti di dominio e di sfruttamento. La prateria aperta davanti al virus è quella presidiata da “un esercito scomposto, arrogante, impreparato, diviso”. Come del resto dimostra la spettacolare inazione dei governi: un’inazione, che è lo specchio di un cinismo di lunga data: il cinismo di chi ha dichiarato in ritardo l’emergenza, come in USA, Gran Bretagna e Francia, o l’ha nascosta, come in Russia e in Iran, o ha continuato esplicitamente a negarla, come nel caso del Brasile, tristemente paradigmatico e riassuntivo della violenza mortifera del neoliberalismo autoritario.

Il mondo che si ferma è, molto concretamente, quello della produzione; più precisamente, a interrompersi sono le catene globali della produzione di valore. Le conseguenze, avverte Mauro Pianta, “potranno essere superiori a quelle della crisi finanziaria del 2008”: l’instabilità costitutiva della finanza globale è ora accompagnata dall’incrociarsi di crisi della produzione e blocco dei consumi. La conseguenza immediata è l’inutilità di manovre di espansione esclusivamente monetaria o fiscale: non si può provare a governare la crisi se non ricorrendo alla spesa pubblica. Il punto determinante però restano i modelli di produzione che indirizzeranno gli interventi di spesa: la produzione non va semplicemente riattivata, ma completamente riprogrammata, sia nel come che nel cosa produrre. La crisi ripropone così come inevitabili, contro l’ideologia della priorità dei mercati, i nodi, insieme, della programmazione e della riconversione.

Due elementi in particolare emergono come capaci di orientare la riconversione: la centralità del welfare e la prospettiva ecologica. La sintesi auspicata è dunque un Green New Deal, che, finanziato da una politica fiscale realmente progressiva, rifondi intervento pubblico, politica industriale e politiche contro le diseguaglianze sociali.

Lo spazio di opportunità politica da cogliere sta qui: diventa ineludibile l’intervento pubblico, e la priorità delle strutture fondamentali che sorreggono la riproduzione sociale, la centralità di sistema sanitario e welfare. Il nodo aperto, però, è che la sola dimensione “pubblica” non basta certo a qualificare in termini politici la riconversione. Gli interventi di Chiara Giorgi e di Francesco Taroni chiariscono bene la posta in gioco: non si tratta solo di lottare per il welfare, ma nel welfare. Giorgi lo ricorda ricorrendo a una precisa genealogia del sistema sanitario italiano. Dalla medicina democratica alla psichiatria di Basaglia, il welfare tradizionale, incentrato su modelli disciplinari e paternalistici, e su una concezione meramente erogatoria dei servizi, è stato letteralmente rovesciato dalla forza dei movimenti sociali, attraverso pratiche che hanno investito l’intero assetto sociale e hanno imposto la centralità delle soggettività collettive: soprattutto, fu determinante, sottolinea Giorgi, la profonda consapevolezza innescata dal movimento femminista. Lungo questa linea di ragionamento, Francesco Taroni ricorda come la trasformazione neoliberale del “rischio salute”, incentrato su stili e condotte individuali, ha prodotto l’oblio degli strumenti di tutela collettiva della salute che provenivano direttamente dalle lotte operaie contro la nocività in fabbrica. Sulla sconfitta di quei movimenti, maturata nel difficile passaggio dalla centralità della fabbrica a quella del territorio, che pure i movimenti avevano anticipato, si è inserito così un nuovo modello di salute e, più in generale, di welfare, fondato sull’individualizzazione, sulla frammentazione delle autonomie collettive e su un’efficienza esclusivamente economicista e budgettaria. Le lotte nel welfare, nella crisi pandemica, ritrovano oggi precisamente questo nodo: immaginare le alleanze possibili tra le diverse lotte dei movimenti sociali, sulla frontiera sempre più porosa tra lavoro, ambiente e salute, per affermare non tanto una difesa, ma una radicale trasformazione del welfare, fondata sulla priorità della riproduzione sociale e sulle sue forme di autorganizzazione, e, in ogni caso, come ricorda Della Porta, sul mantenimento di una tensione continua con i movimenti.

Solo su questa base, ci sembra, potrà conquistare una concreta effettività il ruolo del pubblico, evocato da molti interventi in questo volume. La radicale trasformazione dello stato, che lo ha reso spesso ben più un supporto che un argine dei processi neoliberali, rende poco realistico, infatti, pensare a un suo “ritorno”, in forme che possano essere davvero utilizzabili per un Green New Deal. Come si avverte per esempio nel volume indagando la situazione latino-americana (Cirillo-Garcia), l’inevitabile maggior presenza dello Stato, di per sé, potrà darsi anche nelle forme autoritarie e oppressive, in un tentativo di chiudere la crisi attraverso il comando: il punto cruciale risiede nella forza delle soggettività collettive di riappropriarsi integralmente del terreno del welfare, e di rovesciare, al suo interno, le relazioni di potere.

La sfida sta perciò nell’attraversamento deciso della dimensione transnazionale, come ricordano opportunamente gli interventi sull’ineludibilità della dimensione europea e sulla dimensione globale di un costituzionalismo ecologicamente rifondato (Ferrajoli), ma anche, dal basso, nella valorizzazione dell’autonomia collettiva e delle sue “istituzioni”.

Se infatti la programmazione e il pubblico tornano ora sicuramente centrali, la loro effettiva forza nella lunga crisi postpandemica che si annuncia, è affidata alla capacità di riattivare le modalità di lotta e di creazione di contropoteri richiamati da queste lunghe genealogie, che richiamano le ondate collettive che attraversarono e trasformarono fabbrica, territori e soggettività. Senza centralità dei movimenti sociali, e in particolare dei movimenti globali femminista ed ecologista, difficilmente una nuova programmazione e riconversione potrà essere gestita, dall’alto, attraverso un’improbabile riconquista di forza emancipatrice delle istituzioni statali.

Una versione più breve di questo articolo è stata pubblicata su il manifesto il 6 maggio 2020.

«L’epidemia che ferma il mondo. Economia e società al tempo del coronavirus», e-book collettivo e gratuito è scaricabile dal sito di «Sbilanciamoci!».

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