di MAURIZIO LAZZARATO.

In questo testo, Maurizio Lazzarato  risponde alle tesi sviluppate contro il movimento degli intermittenti da Pierre-Michel Menger, sociologo del lavoro e dell’arte, attualmente professore al Collège de France dopo essere stato a lungo directeur d’études all’EHESS. Si tratta di un primo contributo di analisi della ripresa del movimento degli intermittenti dello spettacolo e dei precari, che in Francia si oppone al cosiddetto “protocollo del 22 marzo” firmato dal governo socialista e dalle parti sociali (NdR.)

Il “Lavoro creatore” 1 e “l’intermittenza come eccezione”.

Nella sua lezione inaugurale al Collège de France, Pierre-Michel Menger è riuscito nella prodezza di discutere di lavoro e di «lavoro creatore», senza mai nominare il capitale. C’è sempre stato «lavoro», ma, nelle società precapitalistiche, il concetto di lavoro non esisteva perché queste caratterizzavano il mondo e le sue attività in modo del tutto differente da noi. È soltanto con l’avvento del «capitale» che il «lavoro» è stato concettualizzato, sezionato, analizzato in tutte le sue pieghe. Fare del lavoro un’entità autonoma, autoreferenziale, come produzione di opere e realizzazione di sé2, indipendentemente dalla sua relazione con il capitale, significa operare una spoliticizzazione radicale del concetto, perché nasconde la specificità della relazione capitalista: persino gli «artisti» per poter accedere al denaro e quindi a un qualche reddito devono «vendersi» sul mercato, a un padrone, all’industria culturale, a quella del turismo o alla finanza.

A coloro che prendevano in conto esclusivamente il contenuto del lavoro e, come la socialdemocrazia, ne facevano «l’origine di ogni ricchezza e di tutta la cultura», già Walter Benjamin obiettava che un uomo il quale possieda unicamente la sua forza-lavoro non può essere che «schiavo di altri uomini […] che si son fatti padroni». Nessun lavoro, anche creatore, può evitare questa relazione al potere che inevitabilmente agisce sui suoi contenuti e sulle sue modalità d’esercizio.

Pierre-Michel Menger celebra la libertà, l’autonomia, la singolarità del lavoro creatore esattamente nel momento in cui queste sono attaccate, ridotte, riconfigurate, normalizzate, in particolar modo nelle professioni intellettuali. Nell’università, nella cultura e nella ricerca, terreno privilegiato da Menger per l’analisi del lavoro creatore, queste professioni stanno perdendo il controllo del loro know-how, come anche delle modalità di produzione e valutazione (questa «espropriazione», è, da sempre, il segno di un processo di proletarizzazione in corso). Félix Guattari interpretava così l’uso inflazionistico del concetto di crazione (le industrie creative, il lavoro creatore, la classe creativa, il lavoro cognitivo, i creativi della moda, della pubblicità, etc.): «l’invocazione incessante della creatività è diventata una parola d’ordine ossessiva, la creatività infatti va spegnendosi dappertutto […] da qui dunque il richiamo disperato alla creatività […]. Voi evocate le cellule di creatività nell’industria: questo accade perché la laminazione della soggettività è tale, nella ricerca, tra i quadri, etc., che diviene una specie di urgenza vitale per le imprese di punta il fatto di ri-singolarizzare un minimo la soggettività».

La subordinazione dell’artista al mercato e al denaro da una parte, e l’obbligo di lavorare (cioè vendersi) per poter vivere, dall’altre sono anche, e sempre già le questioni di fondo «dell’arte» e della «vita» agli inizi del ventesimo secolo, come ci ricorda Marcel Duchamp. Confrontare il lavoro del sociologo con il punto di vista dell’artista la cui innovazione principale è stata esattamente quella di distruggere, uno per uno, tutti i luoghi comuni reazionari sull’arte, l’artista e il lavoro artistico che Menger convoca nei sui testi (la creazione, il genio, il talento, l’autonomia, l’originalità, la rarità, la libertà, etc.) sarebbe dunque crudele.

Perché allora interessarsi a un’ «opera»  che veicola tutti i clichés più triti su «l’artista e la sua opera» ? perché perdere tempo con una teoria il cui modello artistico è Beethoven e che usa come punto di partenza la definizione kantiana del «genio creatore dedito a produrre senza regole predeterminate se non quella dell’originalità»? In forza del ruolo politico che esercita ad ogni nuova trattativa sull’Assurance Chomage e ad ogni mobilitazione degli intermittenti.

Infatti, quando Menger è costretto a confrontarsi con la massificazione dei lavoratori «artistici», con la loro subordinazione alla logica del profitto, alle industrie culturali, all’industria del turismo, alle politiche culturali di Stato e alla governance dei disoccupati, egli diviene reazionario, ma in un altro modo. Diventa reazionario perché non comprende nulla, letteralmente nulla, né dell’evoluzione del lavoro artistico, né di quella del lavoro in generale. Passa allora il suo tempo a proferire serenamente delle imposture intellettuali simili a quelle che già occupano i media.

 

L’intermittenza è la nuova norma di accesso all’occupazione.

Nel suo ultimo passaggio a France Culture, il 12 maggio di quest’anno, e nel suo articolo su Le Monde del 26 giugno, Menger ha affermato una volta di più la tesi attorno alla quale si sviluppano le sue analisi: l’intermittenza è un’eccezione. Le modalità di impiego come anche i modi di attingere agli assegni di disoccupazione sono atipici, fuori norma, eccezionali. Si trovano lì e da nessun’altra parte («da nessun’altra parte», «incomprensibile in qualsiasi altra situazione», «caso unico», sono i suoi giri di parole preferiti per definire l’intermittenza).

Com’è chiaramente indicato già dal titolo3, il suo libro sull’intermittenza è interamente costruito sull’opposizione tra il normale (impiego e disoccupazione standard) e l’anormale (impiego e disoccupazione intermittenti). Secondo Menger, «non si tratta di una disoccupazione ordinaria, così come non si tratta di un impiego ordinario. […] La regolamentazione della disoccupazione per gli intermittenti rappresenta una forma atipica di copertura di un rischio atipico»4. Disoccupazione e impiego straordinari, rischi e copertura dei rischi atipici, flessibilità fuori norma, siamo insomma in piena «eccezione». Secondo il sociologo dunque gli intermittenti difendono ciò altrove è rifiutato: la flessiblità, i contratti iper-corti che non necessitano di alcun fondato motivo per giustificare il  «licenziamento» (sic) e una disoccupazione fortemente intrecciata con l’occupazione. Dopo le forme di assunzione e i suoi contratti corti, il regime di disoccupazione dell’intermittenza è l’altro grande problema di Menger.

«Il nostro regime salariale si è costituito sulla separazione e sull’opposizione franche tra le due condizioni di lavoratore e disoccupato e non ha mai cessato di definire il secondo come il contrario patologico e distruttore del primo. […] Più intermittenza si sviluppa, più le due condizioni si avvicinano e più gli individui passeranno frequentemente da l’una all’altra»5.

Da qui una serie di «paradossi» e di funzionamenti che «sarebbero incomprensibili in qualsiasi altro ambito dell’economia»6:

– occupazione e disoccupazione aumentano insieme.

Peggio ancora:

– quando l’economia culturale cresce (ed è uno dei rari settori in cui c’è crescita), la disoccupazione aumenta più velocemente dell’occupazione.

– il datore di lavoro ha una libertà totale e non troviamo «da nessun’altra parte» una tale asimmetria tra datore di lavoro e dipendente.

E infine, l’ultimo paradosso, che è il più divertente:

– «l’intermittenza è una costruzione collettiva molto ingegnosa. Ma conduce a un paradosso straordinario che smentisce la posizione dei sindacati quali la CGT o le argomentazioni del Coordinamento Sindacale: dicono che bisogna proteggere i più precari, ma ciò che non dicono, è che il sistema stesso produce precarietà!»7.

Il Coordinamento degli intermittenti e precari e la stessa CGT, vivrebbero dunque nell’illusione di battersi contro l’iperflessibilità, contro la precarietà, contro l’impoverimento, quando invece li favoriscono. In realtà, se ci sono dei paradossi, sono tutti nella testa del «sapiente» eletto al Collège de France, che si è incaponito a leggere il capitalismo contemporaneo con le lenti dell’occupazione e della disoccupazione del fordismo o dei trenta gloriosi.

Per comprendere il funzionamento del capitalismo contemporaneo si deve partire da un punto di vista che è l’esatto contrario di quello di Menger, e che tra l’altro, i coordinamenti degli intermittenti enunciano e praticano almeno dal 1992: l’intermittenza non è un’eccezione. È ormai da molto tempo la regola. È stata un’eccezione quando il lavoro a progetto (quando ad esempio si è assunti per il tempo di realizzazione di un film, di un’opera teatrale, di un concerto etc.) era appannaggio esclusivo della produzione culturale. Ma a partire dagli anni 80, l’alternanza di assunzioni corte, di rotture di contratto senza giustificazione alcuna, tempi di disoccupazione più o meno lunghi, per poi ricominciare con altri contratti di breve durata, e così via… sono divenuti la norma per l’86% dei nuovi assunti.

«Nel primo trimestre del 2013, più dell’83% delle assunzioni nelle imprese superiori ai dieci dipendenti sono state fatte in CDD. Per le URSAAF, che prendono in conto l’insieme delle imprese, sarebbe persino più dell’86% dei contratti firmati attualmente che sono dei CDD. Un record assoluto dopo il 2000, data d’inizio delle statistiche»8.

Ma non è questa l’informazione più importante. Allo stesso tempo sono stati resi noti altri dati ulteriormente interessanti, concernenti la durata di questi CDD e la durata media della disoccupazione incassata tra un CDD e un altro: «sui 20 milioni di contratti firmati ogni anno, due terzi sono CDD di meno di un mese», quando nel 2000 non rappresentavano che un terzo. «Questa tendenza è in salita almeno dall’inizio delle statistiche e la crisi non ha cambiato nulla alla curva» riassume Eric Heyer, economista dell’OFCE9.

Cosa significa che circa 14 milioni di contratti siano di meno di un mese? Che gli intermittenti si spartiscono questi milioni di contratti? O piuttosto che l’intermittenza è diventata, di fatto, la norma della larghissima maggioranza delle nuove assunzioni? Non solo la successione di contratti corti o molto corti non è più una specificità dell’intermittenza, ma la successione rapida dei periodi di assunzione e di disoccupazione è diventata la regola per l’86% delle nuove assunzioni. «Si osserva un periodo medio di tre settimane di disoccupazione in media tra due contratti» sottolinea ancora l’economista dell’OFCE. Menger, come la maggior parte degli esperti, sembra ignorare che, in un regime di «accumulazione flessibile», la disoccupazione cambia di senso e di funzione. La separazione netta e decisa tra lavoro e non lavoro (la disoccupazione come inverso del lavoro), istituita in un regime di accumulazione del tutto diverso (standardizzazione e continuità della produzione e quindi stabilità e continuità dell’impiego), si è trasformata in un intreccio sempre più stretto tra periodi di lavoro e di non-lavoro.

La disoccupazione è diventata strutturale, non nel senso che milioni di persone starebbero in attesa di un CDI, ma esattamente perché si lavora restando iscritti alla disoccupazione. La disoccupazione fa ormai parte della norma dell’occupazione. Essere disoccupati significa essere disponibili e immediatamente arruolabili non per un CDI, ma per un CDD di meno di un mese. La disoccupazione è semplicemente ineliminabile, anzi è la condizione indispensabile per il «pieno impiego precario» nel quale viviamo tutti da anni. I politici e i sindacalisti sono tutti schierati nella «battaglia per l’occupazione», ci promettono ad ogni tornata elettorale il riassorbimento della disoccupazione, quando in realtà la stanno istituendo come una parte dell’attività lavorativa.

Com’è logico «ogni mese sono i CDD che rappresentano il grosso dei battaglioni di nuovi disoccupati. Più del 25% dei nuovi iscritti agli uffici di collocamento escono da un CDD, contro meno del 3% che vengono fuori da un CDI»10. Nello stesso articolo, Jean Christophe Sciberras, presidente dell’associazione nazionale dei DRH, afferma un’evidenza che tuttavia Menger continua a negare, perché è ben lungi dal riguardare unicamente l’intermittenza: «siamo in presenza di un movimento strutturale di trasferimento dell’alea economica verso i CDD e i sotto-trattamenti». E poi ancora: «Il CDD è la norma […] è diventato il margine di flessibilità dei datori di lavoro che non esitano a fare contratti in serie anche per qualche ora»11.

Qui non è più questione di contratti precari o di intermittenza. Tutti i datori di lavoro fanno dei CDD in serie, che hanno le stesse caratteristiche di quelli che Menger continua a pensare come specifici del regime dell’ intermittenza. Si possono perfettamente riprendere le sue parole, senza cambiarne neppure una virgola, per descrivere la situazione di tutti i contratti di lavoro: i padroni, dice Menger, «non devono spiegare le ragioni per le quali chiedono un lavoro di tre ore, di tre giorni o di tre settimane, e non hanno alcuna responsabilità rispetto alla carriera degli artisti e dei tecnici [e degli altri salariati n.d.r.] che assumono»12. Per questi 14 milioni di contratti di meno di un mese «il salariato contratta con un datore di lavoro, ma quest’ultimo non è tenuto, a nessun titolo, a rinnovare ulteriormente il rapporto contrattuale, né ad assicurare la prosecuzione della carriera del suo impiegato, l’evoluzione delle sue competenze o la gestione della sua pensione»13. L’intermittenza non è più «un caso unico nel mercato del lavoro francese»14. Evidentemente, nessuno dei paradossi sopra citati esiste nella realtà.

 

Il governo della nuova norma di occupazione flessibile.

 Il movimento degli intermittenti afferma in primo luogo che l’intermittenza non è più un’eccezione, ma la regola. In secondo luogo, e di conseguenza, la lotta chiede l’estensione del regime di intermittenza a tutti i lavoratori precari (così ha affermato già nel 1992 il Coordinamento degli Intermittenti di Lione, posizione poi approfondita a specificata durante le lotte del 2003 dal Coordinamento degli Intermittenti e dei Precari della regione parigina). In realtà il conflitto porta su come comprendere e realizzare questa estensione.

L’accanimento del Medef e della CFDT contro l’intermittenza è strategico. L’intermittenza è l’unico dispositivo costruito sull’alternanza di occupazione e disoccupazione: costituisce di conseguenza il dispositivo che più direttamente impone e governa la nuova norma dell’occupazione flessibile. Ma prima del 2003, proteggeva troppo i salariati, anche se indennizzava solo la metà degli intermittenti. E li protegge troppo ancora oggi, anche se il protocollo del 2003 ha precarizzato il 70% degli intermittenti. C’è bisogno di qualcosa che assomigli all’intermittenza per il nuovo mercato del lavoro, ma questo qualcosa deve essere povero di diritti e deve applicarsi a lavoratori poveri. L’intermittenza invece era stata pensata per un lavoro qualificato e relativamente ben pagato, quindi adesso bisogna smontarne i diritti, conservarne qualche principio e applicarlo ai lavoratori poveri. Nel frattempo, bisogna trasformare la maggioranza degli intermittenti in «precari impoveriti».

Bisogna davvero non capire gran che di quanto sta accadendo per sostenere le tesi di Menger. Siamo di fronte ad una tendenza di cui la cosiddetta «rifondazione sociale»15 di Dennis Kessler e François Ewald ha fissato il quadro tra fine anni novanta e primi anni duemila: la strutturazione di un mercato del lavoro precario e povero e di alcuni dispositivi di governamentalità dei lavoratori poveri gestiti «paritariamente» dal Medef, dalla CFDT e dallo Stato.

Nel protocollo del 22 marzo 2014, non si tratta solo di una ennesima restrizione dei diritti degli intermittenti, che va nel senso di una tale «rifondazione», si tratta anche dei cosiddetti diritti ricaricabili: presentati come un avanzamento considerevole per i più fragili, sono in realtà un modo di obbligare i disoccupati a accettare dei lavoretti per periodi brevi, cioè per obbligarli a accettare la nuova norma del lavoro che, non dispiaccia a Menger, è quella dell’intreccio tra occupazione e disoccupazione. Lo Stato gioca in questo progetto un ruolo fondamentale, non solo perché l’Unedic non potrà mai funzionare senza il suo intervento, ma anche e soprattutto perché s’incarica (e segnatamente attraverso i notabili socialisti eletti localmente) della gestione delle RSA.

La stessa incitazione ai «lavoretti», ai contratti brevi (bisognerà pure che qualcuno svolga il lavoro per i milioni di contratti di meno di un mese che sono in continua espansione) è contenuta nel dispositivo di gestione delle RSA (instaurato nel 2009), con la differenza che qui l’alternanza è tra lavoro breve e trasferimento di reddito dallo Stato. Evidentemente questo dispositivo è stato presentato come un altro avanzamento considerevole, anche se ha suscitato molti sospetti tra i suoi “beneficiari” che hanno per gran parte rifiutato di aderire al nuovo sistema di assunzione. Ma le vie del signore sono infinite.

Per finire, Menger veicola una immagine falsa del mercato del lavoro in generale. Descrive la situazione in termini di dualismo: da una parte ci sarebbero gli «insiders» e dall’altra gli «outsiders». E il pio desiderio di Menger sarebbe quello di trasformare gli «outsiders» in «insiders» (per raggiungere così il miracolo del pieno impiego). Eppure ciò che abbiamo sotto gli occhi è tutt’altro. Non c’è nessun dualismo: troviamo dei lavoratori poveri tanto tra coloro che hanno un contratto a tempo indeterminato che dal lato dei contratti precari o a tempo determinato, come anche indifferentemente tra i lavoratori altamente qualificati (il 10% dei lavoratori poveri in Germania hanno un diploma di livello universitario)e tra quelli a bassa qualifica. Più che un dualismo ciò che è in corso  è una balcanizzazione dai confini fluttuanti.

Possiamo dire che la costruzione di un mercato di lavoratori poveri ha completamente destrutturato l’impiego stabile sotto il ricatto della precarizzazione e dell’impoverimento. Non sappiamo se hanno fatto più danni le politiche neoliberiste o quelle di pieno impiego (in effetti una situazione di pieno impiego c’è già, ma si tratta di un pieno impiego precario) difese da Menger e condivise dall’insieme della sinistra istituzionale.

 

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  1. A differenza che in Italiano, in francese “créateur” è sia aggettivo che sostantivo: la traduzione letterale sarebbe dunque “lavoro creativo”. Si sceglie qui tuttavia di tradurre “lavoro creatore” per sottolineare il senso dell’ipotesi di Pierre-Michel Menger, il quale si riferisce all’atto demiurgico, al momento di creazione che c’è nel lavoro e che si ritrova poi in modi differenti nel lavoro intellettuale, creativo, artistico etc. 

  2. «Il lavoro creatore non è un semplice lavoro. E neppure una categoria particolare di lavoro complesso, qualificato, specializzato. Esso sollecita direttamente delle competenze come la creatività, e dei comportamenti quali l’implicazione, la motivazione intrinseca (il gusto dell’attività per se stessa), senza preoccupazioni dirette e strumentali riguardo alla remunerazione», Pierre- Michel Menger, Être artiste : œuvrer dan l’incertitude, Al Dante, p. 19. 

  3. Pierre Michel Menger, Les Intermittents du spectacle : sociologie d’une exception, Paris, Éditions de l’EHESS, 2005. 

  4. Pierre Michel Menger, Profession artiste : extension du domaine de la création, Paris, Textuel, 2005, p. 45. 

  5. Pierre Michel Menger, Les Intermittents du spectacle : sociologie d’une exception, Cit., p. 96 

  6. Pierre Michel Menger, Le travail créateur, Paris, Seuil / Gallimard, 2009, p. 33-34 

  7. Pierre Michel Menger, “L’intermittence est une système inégalitaire”, in Le Monde, 26/06/2014. 

  8. Jean-Baptiste Chastand et Alexandre Léchenet, “Explosion du nombre de CDD de moins d’un mois”, in Le Monde, 21/11/2013. 

  9. “La vie sans CDI”,  in Journal Du Dimanche, 23/03/2013. 

  10. Jean-Baptiste Chastand et Alexandre Léchenet, “Explosion du nombre de CDD de moins d’un mois”, in Le Monde, 21/11/2013. 

  11. Ibidem. DRH, sta per “direttore delle risorse umane”. 

  12. Pierre Michel Menger, “L’intermittence est une système inégalitaire”, in Le Monde, 26/06/2014. 

  13. Ibidem

  14. Ibidem

  15. Cf. Denis Kessler, François Ewald, « Les noces du risque et de la politique », Le Débat, mars-avril 2000.