di TIZIANA VILLANI

Il problema della definizione dei territori urbani è centrale e complesso nella contemporaneità a causa di tutta una serie di fattori che indicano, per i prossimi decenni, l’avvenuta rivoluzione urbana del pianeta.

Le configurazioni urbane differenziate sono delle cartografie molteplici, in cui è possibile identificare la copresenza di modelli storici che comprendono anche declinazioni del tutto inedite.

I movimenti migratori, i violenti processi di delocalizzazione, le accelerate trasformazioni del sistema virtuale  sottolineano un movimento così intenso da porre con urgenza alcuni interrogativi inerenti il piano di quella che potremmo definire un’ecologia critica,1 che ha come oggetto anche le trasformazioni territoriali, sociali e politiche del nostro tempo. Le condizioni esistenziali, già da ora, indicano un incremento delle povertà, la deprivazione di beni essenziali: acqua, cibo, abitazioni, legami di reciprocità, laddove l’azione di sottrazione di tutto ciò che è comune caratterizza tanto l’agire del pubblico, che quello del privato.

Nel 2050 secondo le stime de l’ONU e del FMI su 9 miliardi di abitanti 6,4 saranno urbanizzati. I soggetti di questo esodo non approdano in spazi di emancipazione, piuttosto di ulteriore pauperizzazione, di dissoluzione dello spazio pubblico, del vivere minimo, in condizioni di continuo ricatto.

Le molte forme della globalizzazione che agiscono sui territori descrivono essenzialmente i territori urbani, città bunker, set city, megalopoli, città-fiera, città infinite.2 Questa varietà è però in parte apparente, e si sostanzia in sistemi di comunicazione il cui scopo principale  è quello di occultare ciò che invece accade, questo nascondimento  non ci permette di cogliere alcune linee di profonda trasformazione dell’uso dei territori e dello spazio.

La rivoluzione urbana contagia i modi dell’abitare, la disponibilità di spazio è in questo senso un indicatore essenziale per cogliere le condizioni di disagio piuttosto che di benessere. La disponibilità di spazio per abitante non si può commisurare solo in relazione alle residenze, ma anche in rapporto agli spazi pubblici, agli spazi verdi, agli spazi collettivi e soprattutto alle condizioni di vita essenziali. Attualmente, tutta questa domanda sembra poter essere soddisfatta solo da un uso consumistico del territorio. Ora, questa sottrazione costante di spazio, è una sottrazione sostanziale di risorse soggette a uso sempre più privatistico il cui fine ultimo è il profitto. Ogni possibilità di dono costituisce in questo senso una minaccia per le strategie di marketing la cui unica scala di misurazione è quella del potere d’acquisto. Se persino l’occupazione di un brandello di marciapiede conferisce uno status sociale riconosciuto e condiviso (cosa che succede in diverse città come Delhy, ma anche New York), ecco che comprendiamo come l’essere cittadino oggi non sia cosa poi così ovvia. Il conflitto si dispiega, non opponendo solo poveri ai poveri, ma disagiati contro anziani, nomadi contro precari, disadattati contro alienati. Questo arcipelago di contraddizioni vive nei tessuti dei nostri territori, eppure la risposta che di sovente amministratori, progettisti e multinazionali offrono è quella dei progetti mirabolanti, supertorri,  giardini verticali,  centri fieristici, in definitiva una violenta risposta di spregio che ignora i più elementari diritti di cittadinanza.3

Eppure quella che qui si considera non è una situazione di scacco, piuttosto si tratta di mettere in campo una nuova consapevolezza, capace di affrontare il problema delle esistenze  e dell’ambiente, non solo nella logica del circuito della produzione-mercificazione-consumo, quanto nell’espressione di un sapere capace di liberare immaginazione e desiderio, come sostiene André Gorz: “Noi entriamo in un’era in cui il sapere, la conoscenza sono le principali forze produttive e la forma principale del capitale fisso. L’accumulazione, la concorrenza sui mercati, si fanno principalmente tramite il capitale-sapere. A livello della società, passiamo molto più tempo a produrre sapere che a metterlo in opera in modo produttivo. Passiamo molto più tempo a produrci, ossia a sviluppare le nostre capacità e competenze, che a produrre le nostre produzioni. Sono le capacità comunicazionali, relazionali, cognitive, affettive, immaginative che sviluppiamo al di fuori del nostro tempo di lavoro immediato che ci permettono di realizzare in due ore di lavoro diretto immediato più di quello che realizzavano i nostri nonni in 20 o 40 ore. Diviene così sempre più assurdo non pagare le persone che per il tempo che trascorrono a mettere in opera le loro competenze. E se i detentori del sapere – virtualmente noi tutti – si persuadono finalmente che la forma principale del capitale, sono loro che la detengono, meglio: che essi sono il capitale, la necessità di valorizzare questo capitale al massimo non avrà più senso. In effetti, niente mi obbliga a sfruttarmi, ad ‘autovalorizzarmi’ al massimo. La produzione di sé potrà cessare di essere il mezzo dell’accumulazione e dell’arricchimento monetario per divenire fine a se stessa”.4

La codificazione di sé dev’essere letta nella sua accezione ambientale, pertanto la fine dell’auto-sfruttamento, non può che mettere in crisi la narrazione mediatica di un ambiente-territorio correlato a questo intento. Occorre comprendere fino in fondo il meccanismo della codificazione, perché esso agisce sia a livello sociale, sia individuale, e risulta tanto più pervasivo quanto più è interiorizzato in modo automatico.

L’interiorizzazione dei codici di comportamento, di appartenenza, di relazione sia spaziale che temporale disciplinano i corpi, ed è proprio da questo disciplinamento che si esprime in una spazialità, in una territorialità assediata. Ma, come sottolinea M. Stock sono: “le pratiche effettive che contribuiscono a definire il rapporto con lo spazio: la tesi sostenuta è che secondo le pratiche effettuate – di ordine turistico o di ordine per esempio professionale –, lo spazio non viene appreso allo stesso modo e assume ogni volta un significato differente ( Stock, 2001, 2004, 2006). Se si vuol specificare e precisare ciò che ‘fare con dello spazio’ vuol dire, si giunge al contempo a dire ciò che vuol dire ‘spazio’ ”.5

Riconsiderare il territorio non solo come un “valore d’uso”, ma come un processo continuo dell’agire umano sull’ambiente, implica allo stato attuale delle cose, un ripensamento degli stili di vita e dei valori, dunque dei “patti di cittadinanza”. Sovvertire le odierne gerarchie valoriali è un’azione politica che indica la dimensione molteplice, rizomatica, processuale dei territori chiamati a essere spazi dell’ospitalità, del desiderio, del progetto, dell’abitare, del relazionarsi in un’epoca di grande transizione. La colonizzazione dello spazio crea dunque territorio, ma la produzione di spazi omologati realizza solo realtà assediate.

La creazione di una dimensione del comune che analizzi lo spazio come elemento cardine dei processi di selezione in corso, in cui “La rappresentanza – come rilevano Michel Hardt e Antonio Negri – è una sintesi disgiuntiva, connette e taglia, congiunge e separa simultaneamente”,6 diviene imprescindibile per la comprensione delle trasformazioni in corso.

Come si è visto, il territorio è il frutto di un inesausto processo di colonizzazione. Un processo che ha scritto la trama delle città occidentali e non solo, e che nella sostanza non si è poi di molto modificato, nemmeno in questa fase di disneyana interpretazione dell’urbano. M. Cerasi sul finire degli anni Settanta scriveva: “Attraverso l’analisi del tessuto e delle destinazioni d’uso, e delle vicende urbanistiche che differenziano, all’interno di un fenomeno apparentemente omogeneo quale una zona di periferia vecchia, strada da strada e zona da zona, emergono fenomeni che possiamo riassumere nel modo seguente. Laddove appaiono elementi di infrastrutturazione pesante a favore di un traffico veloce (quali la metropolitana e gli assi attrezzati di comunicazione intercomunale) la vecchia periferia tende a trasformarsi radicalmente nel, e a spese del, vecchio tessuto di una serie di interventi speculativi residenziali e terziari determinati dall’altissimo valore assunto dalle aree, grazie ai fenomeni urbanistici a grande scala che la interessano; la trasformazione è macro-urbana nel senso che i fenomeni che interessano queste zone non sono derivati da un’evoluzione locale o di quartiere ma da un ruolo generale che questo tessuto assume all’interno dell’evoluzione stessa della città. […] Il problema della residenza operaia nella vecchia periferia, nonché quella delle zone di primo approdo per gli immigrati, è legato perciò a una meccanica del tipo: colonizzazione del territorio – valorizzazione del suolo – degrado edilizio – sostituzione ed espulsione verso nuove periferie dei ceti più deboli economicamente”.7

Il degrado agisce come fattore di accelerazione della trasformazione dell’urbano. Questo spiega come esso possa essere quindi utilmente gestito dall’“emergenza sicurezza” alla gentrification.

Le aree periferiche delle grandi città, che sono di fatto la città abitata, quella con il più elevato numero di abitanti e a più elevata densità abitativa, subiscono il contraccolpo che degrado, abbandono, episodicità degli interventi di risanamento hanno contribuito a creare. Le periferie appaiono come la “città reale” infinitamente distante dalla città museo, o dalla città tematica, per questo esprimono la violenta realtà dei processi di trasformazione socio-economica in corso, processi volti a essere sempre più escludenti e che mirano al “sacrificio” dei più a vantaggio dei pochi. Gli sporadici sforzi di “abbellimento” di queste zone non riescono e non possono contrastare un’ingiustizia sociale sempre più acuta, e non risolvono il problema della disgregazione dei legami affettivi, identitari e di appartenenza, poiché questi interventi non mettono in discussione la trama valoriale dominante che ci dice di una situazione patologica in cui vince solo chi appartiene a un “sistema di rapina”.

 

Il “capitale emotivo”8 è una configurazione dell’attuale sistema di mercificazione sulla quale è opportuno soffermarsi. Nella solitudine metropolitana, nell’orizzonte della disarticolazione degli affetti, e nell’atonia dei sentimenti, le emozioni costituiscono un terreno privilegiato e prezioso nei processi di valorizzazione e circolazioni delle merci. A questo meccanismo non è estraneo il territorio, in quanto bene, bene la cui valenza affettiva ed emozionale deve diventare un elemento di misurazione commerciale.

I tradizionali legami con i territori d’origine, familiari, di consuetudine sono stati sostituiti dai territori smaterializzati del marketing, delle location e dei modelli seducenti da emulare. Questa strategia ha svolto un ruolo importante nel processo della diminuzione sostanziale sia degli spazi abitativi, che di quelli pubblici. Le case, le piazze, i centri commerciali sono confezionati non solo in modo standardizzato (il che dovrebbe produrre un meccanismo di immediata riconoscibilità e appartenenza), ma anche come “luoghi giocattolo”, colorate parentesi nel grigiore dell’urbano in cui accettare di essere costretti (i microappartamenti ben sfruttati dall’occhio dell’architetto), ma anche spogliati di ogni appartenenza.9

L’emozione, in questo contesto, funziona come valore aggiunto imprescindibile, design, logo, colore, artificio, devono sviluppare una catena emotiva che consoli individui o collettività dalla vertiginosa perdita di senso di un agire così configurato. In definitiva e secondo le logiche più tipiche delle società del consumo, il “capitale emotivo” è chiamato a compensare la latitanza degli affetti, o meglio la loro perdita di valore sociale.

Il valore che un certo territorio è in grado di raggiungere non è dato unicamente dalla sua infrastrutturazione, dalla residenza, dalla collocazione geografica, ma anche dal “capitale emotivo” che è in grado di attivare. Una delle conseguenze di questa situazione consiste nella velocizzazione attraverso la quale un’area può valorizzarsi e poi declinare essendosi del tutto consumato il suo richiamo, la sua vocazione presto sostituita da un altrove mirabolante. Le grandi aree urbane occidentali scontano questa tendenza senza riuscire a invertirla. Congestionate, acefale, in crescita disarmonica queste realtà investono “sulla propria immagine”, nella consapevolezza che quest’opzione imporrà intensi processi di smobilitazione sia della popolazione che delle attività.

 

I processi di delocalizzazione delle attività su scala planetaria non interessano unicamente le attività di fabbrica, ma anche i saperi, le capacità affettive ed emotive cui è chiesto con forza di “reggere” ritmi e ventagli di “performatività”, sempre più elevati. È evidente che le identità sociali non riescono più in questo modo a costruire alcuna appartenenza, né con le proprie figure professionali, ma nemmeno con i luoghi, le abitazioni e le relazioni in cui si spende la vita.

Nella divaricazione sempre più ampia tra le nuove élite tecno-finanziarie e un sociale precario e assediato dalla necessità di far fronte ai bisogni più elementari di vita, s’incunea il ruolo decisivo della “governamentalità”, che deve organizzare non solo il consenso, ma più profondamente deve forgiare i modelli di vita cui si è tenuti ad adeguarsi.

Il processo attraverso il quale i meccanismi e le tecniche di governo delle esistenze si declinano, sono raffinati e violenti al contempo. L’induzione verso stili di vita omologati, volti al consumo, alla significazione di sé attraverso il possesso di “cose”, il cui valore simbolico è superiore a ogni effettivo bisogno costituiscono la sfera in cui si modella la proiezione della propria identità sia individuale, sia collettiva. Questa costellazione di simboli interiorizzata fin dalla primissima infanzia “lavora” voracemente allo spossessamento di ogni ipotesi di autorealizzazione. Il lavoro, la “fame di lavoro”, il bisogno di lavoro assumono in tal modo la forza travolgente dell’unica significazione di vita proprio nel momento in cui precarietà, espulsione dalla produzione, sottrazione di saperi definiscono il tempo delle nuove povertà. Povertà dunque non solo materiali, ma anche povertà di senso dell’esistere, povertà di affetti computati secondo valutazioni di certificazione, povertà creativa data l’impossibilità di poter persino pensare una diversa espressione di vita.

A. Gorz, a proposito del meccanismo di spossessamento inesausto prodotto dal capitale odierno, sottolineava che: “la società complessa rassomiglia così a un grande macchinario: essa è, in quanto sociale, un sistema il cui funzionamento esige degli individui funzionalmente specializzati alla maniera degli organi di un corpo o di una macchina. I saperi specializzati in funzione delle esigenze sistematiche di ogni sociale non contengono più, per quanto complessi e sapienti siano, delle risorse culturali sufficienti a permettere agli individui di orientarsi nel mondo, di dare senso a ciò cui concorrono. Il sistema invade e marginalizza il mondo vissuto, ossia il mondo accessibile alla comprensione intuitiva e all’orientamento pratico-sensoriale. Esso toglie agli individui la possibilità di avere un mondo e di averlo in comune”.10

Questa sottrazione di mondo permette di comprendere come l’alienazione non possa più essere letta solamente in senso classico, poiché alle sue caratteristiche originarie si sono aggiunte tecniche molto più pervasive di estraniazione che giungono a spossessare la “vita” stessa nei suoi connotati di completa esposizione ai meccanismi di sottrazione, che sono movimenti di sottrazione biologica, materiale, affettiva, simbolica, emotiva, che deteriorano la nostra possibilità di ricomposizione ambientale, sociale, politica.

La prospettiva di una fuoriuscita da simili mappature dei territori implica la messa in questione di alcuni assunti dati troppo spesso per scontati.

 

Lo spazio urbano è il luogo di questo conflitto, atto creativo e di resistenza e al contempo piano del controllo, concretizzazione di una vita da automi sempre più addomesticati.

Concepire il divenire urbano come espressione di un continuo sovvertimento di senso permette la creazione di atti di resistenza, questi realizzano una spazialità intesa come dimensione amicale, agone di una ricerca che non perde mai di vista l’interesse principale e che affetta tutte i processi e le forze volte a esprimere la vita.

La polis ha conosciuto e continua a conoscere infinite variazioni d’uso sia degli spazi, sia delle attività, dei comportamenti e degli stili di vita. Questa plasticità suggerisce quindi tutta una serie di possibilità che hanno in comune un problema squisitamente politico: la presa d’atto che le attuali sperequazioni sociali, economiche, ecc. devono essere ripensate alla luce di un patto che restituisca dignità, uguaglianza, possibilità di accesso alle comunità che vi si riferiscono.

Nel tempo della povertà diffusa occorre chiedersi senza ambiguità se la felicità, il diritto alla felicità, come già insegnava P. Verri,11 non debba essere una chimera per anime semplici. L’urbano è la dimensione spaziale in cui prende forma la contesa presente, ancora è la dimensione in cui le parole d’ordine entrano in conflitto con gli atti creativi di una ricerca che afferma la necessità di liberare corpi, linguaggi e azioni dalla routine del consumo-produzione-comunicazione-consumo.

Le società di controllo si configurano come società urbane assediate dal marketing. Nelle analisi di D. Lyon contenute nel suo Massima sicurezza. Sorveglianza e “guerra al terrorismo”, possiamo leggere: “In realtà, non molto tempo dopo l’11 settembre, è divenuto chiaro che le forme di business analysis erano state riconvertite in funzione antiterroristica. Come abbiamo visto nel quarto capitolo, CRM (Customer Relationship Management) data-mining e data-warehousing, nati come strumenti di marketing, sono stati impiegati con successo dai vari dipartimenti governativi. All’inizio riguardavano gruppi di persone per ambiti come le imposte, i servizi e la salute, ma adesso vengono richiesti dagli organi di polizia e di intelligence. Il CRM aiuta le aziende ad analizzare i dati dei consumatori per prendere decisioni nel campo del marketing, ed è sostenuto da data-mining per scoprire sequenze, associazioni, classificazioni, raggruppamenti e fare previsioni. Anche il data-warehousing aumenta l’utilità di dati come questi, giacché li ripulisce in modo da eliminare differenze e imprecisioni fra le fonti e i dati presi a modello. Lo scopo è quello di comprendere le preferenze dei consumatori, crearne i profili e prevederne il comportamento – un compito assai simile a quello di cui si sostiene la necessità nel settore dell’attività antiterroristica”.12 Le nuove tecnologie piegate alla diffusione dei sistemi di sorveglianza paiono finalizzate non tanto a garantire la sicurezza collettiva, come si continua a sostenere da più parti, piuttosto tendono a rafforzare il circuito economico e ideologico della gestione del rischio, permettendo inoltre di incrementare la produzione di attività connesse con gli apparati di controllo sia esso pubblico che privato.

La mappatura dei corpi sempre più minuziosa e invasiva si accompagna a quella degli spazi urbani. Se comprendiamo che lo spazio da controllare non è solamente quello materiale, ma anche quello dei flussi di rete, delle informazioni e delle transazioni cogliamo meglio il motivo che tende a intensificare il controllo dei corpi, intesi come oggetto di uso-consumo le cui potenzialità sono catalogate alla stregua di connettori di questa nuova espressione del modello socio-economico.

Qual è, rispetto a un simile stato delle cose, l’interrogazione che non è più possibile eludere? Detto altrimenti, in che modo possiamo iniziare a creare una nuova ecologia sociale, che ripensi la città come spazio di liberazione e non di povertà?

La questione è tanto più delicata poiché va posta in relazione con la disposizione molteplice e proteiforme dell’urbano e delle sue funzioni. Per questo motivo comprendere i meccanismi del consumo, del marketing, dell’impatto del brand, dei linguaggi del dominio, piuttosto che i flussi di inurbamento sempre più accelerati, risulta necessario non solo per resistere, ma per attuare un progetto ecosofico, che dia alle esistenze la potenza di compiere una svolta antropologica, la cui portata non potrà che essere ambientale. Tutto questo significa mettere radicalmente in discussione il meccanismo psicopatologico dell’attuale modello dominante. In modo pertinente, Félix Guattari lancia senza incertezze la proposta di un superamento della dialettica natura-cultura, prospettando un impiego dei saperi, delle creatività, delle tecnologie, capace di contrastare gli scenari della new economy globalizzata. “La creazione di nuove specie viventi, vegetali ed animali, si affaccia ineluttabilmente al nostro orizzonte e rende urgente non solo l’adozione di un’etica ecosofica adatta a questa situazione terrificante ed affascinante insieme, ma altresì una politica focalizzata sul destino dell’umanità. Alla narrazione della genesi biblica stanno per sostituirsi le nuove narrazioni della ricreazione permanente del mondo”.13

Questa non è in alcun modo l’attestazione di un nuovo umanesimo, piuttosto l’accento si pone sull’importanza della processualità delle esistenze, ossia di quel movimento che lo stesso Guattari definisce di eterogenesi: “vale a dire un processo continuo di ri-singolarizzazione. Gli individui devono diventare contemporaneamente solidali e sempre più differenti. (Lo stesso vale con la ri-singolarizzazione delle scuole, dei comuni, dell’urbanistica ecc.).”14

Non a caso l’autore evocato è Walter Benjamin, che in una sua annotazione sull’intensità, scriveva: “Non è forse possibile che all’intensità con cui da bambini percepiamo il mondo, ma anche le immagini, le rime ecc., si mescoli qualcosa del presentimento?”.15

È questa la storia di cui dobbiamo occuparci, un pre-sentire che intensifichi l’atto di creazione incessante che produce ambiente, perdendo o addomesticando questa disposizione non possiamo che restare aggiogati alla bruta insensatezza di un quotidiano povero di mondo.

 

Note

 

  1. 1. L’ampio dibattito sul tema dell’ecologia critica o politica non è immediatamente riassumibile in questo contesto, riprendo quanto ho scritto nella premessa del mio ultimo libro: “L’ecosofia critica, infatti, è una fuoriuscita radicale dal modello sociale, economico e culturale dominante, modello disegnato su configurazioni attualmente permeate da quel modello, poiché implicate nella sfera dei poteri e del dominio piuttosto che sulle relazioni altre, capaci di sperimentare forme di soddisfazione non immediatamente mercificate. Il piano ecosofico è per sua natura relazionale, ambientale e in divenire, è in sostanza il vivente chiamato in partecipazione e articolazione tra impronte diverse”. Villani T., Ecologia politica, Nuove cartografie dei territori e delle potenze di vita, Roma, Manifestolibri, 2013.
  2. 2. Cf. Petrillo A., La città perduta. L’eclissi della dimensione urbana nel mondo contemporaneo, Bari, Dedalo, 2000; Lussault M., L’homme spatiale. La construction sociale de l’espace humain, Paris, Seuil, 2007, Paquot Th., Terre urbaine. Cinq défis pour le devenir urbain de la planète, Paris, La Découverte, 2006.
  3. 3. È utile in proposito richiamare qualche riflessione sul termine gentrification. Il termine gentrification non ha avuto grande ricezione in Italia. Secondo Ruth Glass che l’ha introdotto in ambito accademico, con esso si intende il complesso di fenomeni di trasformazione sociale, territoriale ed economica in cui ceti e quartieri popolari vengono riprogettati ad uso di ceti più abbienti. Tale fenomeno investe quartieri semi-periferici, o un tempo periferici, che in ragione di specifiche caratteristiche abitative, infrastrutturali diventano interessanti per i movimenti speculativi. Valga come esempio quanto è avvenuto a Milano per l’ex-quartiere operaio dell’Isola, oggi trasformato in un “lussuoso spazio-cartolina”. Vedi in proposito il lavoro militante svolto da Isola Art Center, a partire dalla storica occupazione della Stecca degli artigiani, www.isolartcenter.org
  4. 4. “Les périphériques vous parlent”, n.10, pp. 47-48.
  5. 5. Stock M., Théorie de l’habiter. Questionnements, in: Habiter le propre de l’humain. Villes, territoires et philosophie, (a cura di Th. Paquot, M. Lussault, Ch. Younès) Paris, La Dècouverte, 2007, p 113.
  6. 6. Hardt M., Negri A., Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Milano, Rizzoli, 2004,  p. 279.
  7. 7. Cerasi M. – Ferraresi G., La residenza operaia a Milano, Roma, Officina Edizioni, 1974, p. 316 e p. 320.
  8. 8. Christian Marazzi, nel suo Capitale & linguaggio. Dalla New Economy all’economia di guerra, Roma, Derive Approdi, 2002, parla di semio-capitale, “di semiotizzazione dei rapporti sociali di produzione”, p.41.
  9. 9. L’attenzione per la residenza sociale, le forme di disagio, le risoluzioni possibili ha trovato esito in percorsi progettuali decisamente diversi, preme in questa sede almeno indicare il lavoro minuzioso svolto da Alberto Magnaghi con il suo Laboratorio di Progettazione Ecologica degli Insediamenti (LAPEI) del Dipartimento di Urbanistica. Vedi anche: Magnaghi A., Il progetto locale, Torino, Bollati Boringhieri, 2010.
  10. 10. Gorz A., Économie de la connaissance, exploitation des savoirs  (intervista realizzata da Yann Moulier Boutang e Carlo Vercellone) in «Multitudes», n. 15, 2004
  11. 11. Cf. Pietro Verri, Discorso sulla felicità, Firenze, Le Monnier, 1854.
  12. 12. Lyon D., Surveillance after September 11, Polity Press – Blackwell, 2003, (Massima sicurezza. Sorveglianza e “guerra al terrorismo”, tr. it. di E. Greblo), Milano, Cortina, 2005, p.131.
  13. 13. Guattari F., Les trois écologies, Paris, Galilée, 1989, (tr.it.  di Riccardo d’Este, Casale Monferrato, Sonda, 1991, p.43.
  14. 14. Ibidem, p. 45.
  15. 15. Benjamin W., Ombre corte. Scritti 1928-1929, a cura di G. Agamben, Torino, Einaudi, 1993, p. 613.

 

Download this article as an e-book

Print Friendly, PDF & Email