di AGOSTINO PETRILLO.

Flussi e luoghi, chi comanda?

Sono ormai più di dieci anni che si continua a insistere sul rapporto tra luoghi e flussi.  Vi è stato inizialmente un periodo di eccitata scoperta della “relativa indifferenza dei luoghi”, del venire meno sotto l’incalzare delle trasformazioni produttive e delle nuove tecnologie comunicative delle rigide maglie rango-dimensione che avevano a lungo caratterizzato il mondo dell’industria e del commercio inter-nazionale. Nel mondo globalizzato si sarebbe profilata una sorta di “emancipazione” dei luoghi da gerarchie economico-politiche che si erano andate strutturando per decenni se non per secoli. Ma già verso metà degli anni Novanta, nei primi studi  riguardanti le conseguenze della globalizzazione sulle città, l’entusiasmo localista era scemato, dato che era stato intuito  come  si profilasse una situazione nuova: una sempre maggiore difficoltà a controllare i flussi globali di merci, capitali e persone da parte di istituzioni “solamente” locali. Nella letteratura successiva si è sottolineato di volta in volta il ruolo non residuale del “posto”, delle sue peculiarità e caratteristiche, ed è stato messo l’accento sull’importanza  delle modalità con cui la dimensione locale veniva gestita. Nelle diverse letture che sono state via via proposte di tale incrocio complesso tra globale e locale, si é  a lungo oscillato tra l’attribuire ai luoghi una importanza subordinata e pressochè “ancillare” e un ruolo invece in cui il posto contava non solo per le sue caratteristiche e specificità, che lo rendevano più attraente per i capitali globalizzati, ma anche per determinanti aspetti  logistici, gestionali e organizzativi in grado di rassicurare sotto il profilo della sicurezza e della redditività degli investimenti effettuati. Gli investimenti diretti esteri, come quelli a livello nazionale e locale, potevano non solo essere incoraggiati, ma in certo modo “calamitati” da amministrazioni accorte e lungimiranti. Dopo una fase in cui sembravano prevalere e svolgere un ruolo determinante le forze “globali”, i grandi capitali e i Global Players, si è perciò parlato di “rinascita del governo  locale”.  In realtà oggi studi come quelli di Graham sui meccanismi di produzione delle infrastrutture mostrano come il “locale” conti poco o niente quando determinate opere sono individuate come necessarie dal grande capitale transnazionale, (TAV docet), e come il ruolo giocato dagli “abitanti” sia quantomeno ridotto, con buona pace del chiacchiericcio partecipazionista. Viene anzi da chiedersi se dietro la retorica della “indifferenza dei luoghi” non siano invece andati formandosi nuovi rapporti di forza e gerarchie più sornione  e meno evidenti del vecchio e lungamente esplorato rapporto metropoli/periferia. Insomma l’antica questione delle centrali del potere planetario torna a riproporsi. Non che i centri siano rimasti gli stessi di un tempo, e anche le gerarchie e le tassonomie d’antan sono uscite fortemente modificate dalla globalizzazione, ma ad esse se ne sono sostituite nuove, meno facilmente individuabili. Lo mostra molto bene l’ormai annosa querelle sul rapporto tra città globali e stati nazionali, che ha oscillato a lungo tra un’attribuzione di poteri e di funzioni decisionali importanti alle città e un ridimensionamento del loro ruolo complessivo. Arcana Imperii…più che mai oggi le centralità, le sedi in cui il vero potere viene esercitato e vengono prese le decisioni che contano appaiono sfuggenti, a livello di megalopoli il policentrismo di maniera nasconde meccanismi di ascesa e declino non giustificabili unicamente con le leggi del mercato, basti pensare al destino di alcune metropoli indiane, valutate fino a poco fa in irresistibile ascesa nelle graduatorie delle città mondiali  e già in grave difficoltà, se non declinanti, dopo la crisi della scorsa estate, con tassi di disoccupazione in rapida crescita. La fragilità di alcuni destini urbani deve fare riflettere. Il network delle città globali, lungi dall’essere orizzontale, “cooperativo” ed egualitario, appare sempre più assumere i tratti di un nuovo sistema spietatamente gerarchico, e poco vale continuare a studiarlo principalmente sotto il profilo delle connettività, tralasciando gli aspetti di comando. L’interrogativo “chi comanda?” appare perciò aperto come mai in passato, e la questione del potere nelle città e tra le città si pone come uno dei grandi problemi insoluti dell’epoca.

Movimenti, diritto alla città, resistenze

Gli ultimi anni sono stati segnati da una ripresa di movimenti che si esprimono nelle città, nelle piazze. Esiste oggi una nuova complessità dei movimenti urbani, che non è riducibile alle semplificazioni di Badiou, e neppure ad una ripresa tout-court dello slogan del “diritto alla città”. Molte cose sono cambiate, nelle città e nei movimenti e negli stessi contesti politici di riferimento. Sarà pur giusto recuperare il diritto alla città nei termini di “parola d’ordine e come ideale di riferimento” come ci ricorda Harvey, ma occorre ricordare che assai diversa era la situazione della città fordista e delle sue rivolte urbane, così ben fotografata a suo tempo da Lefèbvre. La situazione e l’identità dei movimenti attivi all’interno dell’universo dei regimi neo-liberali postfordisti è ben altra. Oggi tanto i discorsi in proliferazione sulla città come bene comune, sia la ripresa dello slogan lefèbvriano hanno il senso di una rivolta contro forme tutte nuove e specifiche dell’oppressione e della marginalizzazione che hanno luogo nelle città; bisogna quindi tenere ben presente che le rivendicazioni attuali appaiono per alcuni versi lontanissime da quelle del Sessantotto. Le contraddizioni introdotte dalle politiche urbane neo-liberali, che hanno individuato nella città unicamente uno spazio da finalizzare alla crescita economica “costi quel che costi”,  e provocate dalla gestione neo-liberale della crisi sul terreno della città, hanno condotto a situazioni paradossali: intere generazioni escluse dal mercato del lavoro, una realtà urbana sempre più compartimentata e divisa, forme di esclusione sociale e spaziale che si intrecciano in maniera perversa. Alla costante erosione dei diritti sociali si è infatti accompagnato un processo di trasformazione urbana a più facce, di cui la gentrification è solo uno degli aspetti, ma che ha in ogni caso privilegiato alcuni ceti a discapito di altri, respingendo verso i margini delle città i più poveri e svuotando e museificando i centri. Nel frattempo le “riforme sociali” andavano trasformando il welfare in un workfare generalizzato con la precarizzazione del lavoro e l’introduzione di regimi salariali di pura sopravvivenza. Questi sviluppi hanno per molti versi limitato lo spazio di azione dei movimenti, che hanno assunto spesso aspetti prettamente “resistenziali”, si trattasse di contestare determinate scelte e linee di sviluppo delle città, per esempio Grandi Eventi, o si trattasse di contestare la crescente privatizzazione degli spazi pubblici, vedi Gezi Park. Non che siano mancate prospettive più ampie, che hanno animato lotte contro la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia, e penso alle campagne contro le grandi istituzioni regolatrici dell’economia internazionale o ad alcuni aspetti di Occupy. Ma, come si è visto bene nel caso spagnolo, è stato spesso difficile per questi movimenti trovare una dimensione più complessiva di espressione, e questo colpisce molto se si considera lo scarto paradossale tra l’uso capitalistico attuale delle città e le potenzialità in esse presenti e neglette. Mai come oggi, ed enormemente di più che nell’epoca del “diritto alla città”, si sperimenta nelle città lo spreco delle competenze e delle conoscenze, il contrasto tra una produzione collettiva e comune della metropoli e la sua appropriazione parziale e privata.  Ma come dare ai movimenti un respiro che vada al di là delle prospettive “resistenziali”, come fare comprendere che le modalità di gestione e utilizzo attuali delle città e delle risorse urbane sono assurde, che è di nuovo, e sempre più vero ed evidente che “la città è di tutti”? Questo è uno dei nostri compiti.

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