di BRUNO MONTESANO.

Presentiamo qui una recensione a Oltre la notte (Aus dem Nichts), film del regista turco-tedesco Fatih Akin, nella quale si propone una interessante e necessaria rilettura, in chiave antagonistica tanto all’ordo/neo-liberismo quanto al nazional-populismo, delle possibilità europee da immaginare ed affermare collettivamente, pena lo sprofondare nella intollerante e rabbiosa xenofobia che protegge il comando delle gelose burocrazie statali dell’Europa neoliberista e l’ordine disciplinare del sovranismo nazionalista e antiegualitario.

Oltre la notte è un grande film per l’Europa nazional-populista che stiamo imparando a conoscere, e non ancora a combattere. Padre e figlio curdo tedesco muoiono ad Amburgo per mano ignota. La polizia inizialmente esclude la possibilità che si possa trattare di omicida tedeschi. È gente dell’Europa dell’est, o forse la mafia curda, o turca tutt’al più. Gli assassini non possono fare parte della comunità nazionale. Il male viene da fuori ad insidiare l’armonia della produttiva e stabile Germania. Semmai, gli attentati a cui è lecito pensare sono quelli degli islamisti, non quelli dei bianchi europei. Katja, la moglie della vittima invece – una bravissima Diane Kruger, giustamente premiata a Cannes – nonostante il dolore, sa chi sono i responsabili. I neonazisti tedeschi, che da poco, mediatamente, vedono un potente referente politico nella terza forza del paese, la AFD (Alternative für Deutschland) che ha assorbito le istanze dei nazisti del NPD (Nationaldemokratische Partei Deutschlands). Ma parallelamente all’istituzionalizzazione, violenza e crudeltà razziale nelle strade della nazione non scompaiono, tant’è che il film si chiude ricordando che il gruppo terrorista Nationalsozialistischer Untergrund si è macchiato di svariati omicidi razzisti negli ultimi anni. Senza dimenticare Pegida, i “Patriottici europei contro l’islamizzazione dell’Occidente”, movimento che milita per l’esclusione di chi minaccia l’integrità della Germania bianca e cristiana, iniziato proprio a partire dall’odio verso i curdi.

Alleanze per una società più giusta

Questo il nucleo dell’avvincente thriller politico del regista turco-tedesco Fatih Akin. La giustizia, dando credito alle tecniche usate per criminalizzare la vittima, non vorrà punirli, in assenza di prove. La protagonista che cerca giustizia e che, davanti alla divaricazione rispetto alla sua manifestazione reale, troverà una personale vendetta, è una donna. E non potrebbe essere altrimenti, in questi tempi di ascesa di uomini forti e di paralleli e contrari movimenti femministi. Come spesso vediamo accadere, chi detiene il potere, o chi è responsabile di violenze, in questo caso razziste, per celare la propria abiezione sposta sulla vittima l’attenzione inquisitoria tentando di farla passare per subdola, manipolatrice o inaffidabile. Oltre agli attacchi alle donne del MeToo, si pensi al discorso sui trafficanti di uomini come dispositivo per delocalizzare colpe e responsabilità dai tutori della Fortezza Europa verso i migranti. Loro colpa è quella di affidarsi a criminali senza scrupoli per attraversare i deserti africani e le acque mediterranee, magari con l’aiuto delle Ong, i “taxi del mare”. Una donna, moglie di un curdo ucciso in quanto tale, abbandonata dalle tradizionali istituzioni contro l’insorgente barbarie nazionalista. Quale metafora migliore delle necessarie alleanze da costruire per istituire una società più giusta?

Oltre la notte non è un film consolatorio, e difficilmente potrebbe esserlo, visti i tempi, anche in Italia, piuttosto bruni. La prima parte del film è estremamente dolorosa, così come la conclusione. Si partecipa dell’abisso in cui viene gettata la protagonista da un crimine così odioso. La solitudine che sperimenta è grande quasi quanto l’ingiustizia subita. Il marito defunto era uno spacciatore. Non importa che abbia cambiato vita. È marchiato. Anche la madre della protagonista, la borghese bianca tedesca, dubita dell’innocenza del genero. Se l’è cercata, lo spacciatore impenitente. A Katja non resterà che cacciarla via in malo modo. In questa Europa decrepita, in uscita dal tunnel dall’austerità in fondo a destra, non si può lottare dentro e contro camminando accanto a chi non si è liberato dell’inconscio coloniale e razzista. Dall’isolamento – il film si chiama Aus dem Nichts in tedesco, ossia “dal nulla” – riemergerà grazie alla solidarietà con il suo avvocato, benintenzionato ma sconfitto dal concreto operare della legge.
Prima del processo, quando la polizia è ancora dietro alla pista della criminalità organizzata straniera, proprio quando il dolore sembra sopraffare la protagonista, arriva la buona notizia. “Hanno preso i nazisti” sentirà gracchiare dal telefono, immediatamente prima di decidere di lasciarsi morire per raggiungere i propri familiari uccisi (forse l’unica scena, poco credibile e troppo ad effetto). Ma la giustizia dei tribunali, che vediamo svilupparsi in un avvincente processo, non saprà riconoscere i figli degeneri di quel “passato che non passa”, i bianchi nazisti dell’Europa tedesca. E non si può non pensare alle difficoltà con cui le istituzioni comunitarie affrontano l’insorgenza dei movimenti nazionalisti in tutto il continente. Il processo apparentemente si svolge in maniera prevedibile. Le ragioni delle vittime, la pregiudiziale antinazista, il riconoscimento della concatenazione logica tra i fatti e le accuse, sembrano muovere in una sola direzione: la condanna dei brutali assassini razzisti. E invece, come le imbelli istituzioni europee quando si tratta di sanzionare Orbán o di stroncare le insorgenze più repellenti dell’estrema destra, gli accusati vengono incredibilmente assolti “per assenza di prove”. Così che, dopo essersi serviti dell’aiuto della rete transnazionali di neonazisti – nel caso specifico di quelli di Alba Dorata – i due terroristi di destra vanno in vacanza in Grecia, nell’hotel del camerata che ha fornito loro un alibi. Dopo essersi illusa che la legge potesse difenderla, a Katja non resterà che seguirli. E lì mediterà la sua vendetta. Inizialmente, in modo ingenuo e nobile si espone al pericolo disarmata, vera eroina tragica. Infine, deciderà di rovesciare una violenza eguale e contraria contro i carnefici della sua famiglia. Ma a differenza dei vili attentatori neonazisti, consapevole della catena del sangue che segue ad ogni vendetta, e svuotata dal dolore, decide che la morte si può dare solo se viene condivisa. E qui ritornano in mente le parole di Agamben, nel suo testo Sui limiti della violenza, scritte rielaborando Benjamin in tempi di violenza politica. “L’effetto rivoluzionario non segue immediatamente ad ogni atto violento” e la violenza rivoluzionaria è solo quella di “chi ha attinto coscientemente alla negazione di sé e si è così ‘liberato dal vecchio sudiciume’”, così potendo ”dare un nuovo inizio al mondo”. Personale e politico coincidono, al punto tale che la risposta finale non può che passare per un’esplosione – letterale – delle distinzioni che articolano quel rapporto. Non si tratta ovviamente di elogiare il sacrificio individuale, ma di capire come la violenza non sia pensabile come qualcosa che si porta all’esterno, che si esercita su un nemico, ma se scelta va vissuta anche su di sé.

Contro neoliberismo e nazionalismo

Il film non è quindi solo una riflessione sull’avanzata dell’estrema destra e sull’incapacità della democrazia europea di fronteggiarla, ma anche sul rapporto tra mezzi e fini. Su cosa si può fare quando la legge mostra la sua incapacità di essere giusta, su come gli individui, e la società, debbano difendersi quando ci sono forze disgreganti e si scopre che il sovrano è impotente, quando non direttamente produttore dell’insicurezza collettiva. Non a caso, la tragedia di Katja termina in Grecia, paese devastato dall’insostenibilità dell’attuale ordine istituzionale ed economico europeo, che ha favorito l’ascesa dell’estrema destra in tutto il continente. Così, Antigone-Diane Kruger non potrà arrendersi al lento svolgersi dei gradi di giudizio. Il dolore è troppo grande, la violenza da contrastare troppo ingiusta, il pericolo per la collettività imminente.
Ma davanti allo scacco, quando sembra che nulla possa essere fatto, Katja tornerà sola a riflettere sul rapporto tra legge e giustizia, traendone delle disperanti soluzioni. L’indicazione politica non è quella dell’autoannientamento, quanto quella a cui accennavamo all’inizio. Sta nell’alleanza trasversale tra donne, migranti e subalterni la chiave di volta per affrontare questo ordine che non tiene. Consapevoli che la fase è determinata da rapporti di forza che propendono per un loro riassetto regressivo. Insomma, Katja, con il suo terribile gesto finale, rappresenta la difficoltà di questo terzo spazio che ancora fatica ad affermarsi nonostante sia l’unico possibile, quello che contrasti tanto lo status quo del neoliberismo e della democrazia nazionale, quanto il sovranismo nazionalista e antiegualitario.

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