Di JUDITH BUTLER e GEORGE YANCY.

George Yancy: So che conosce molto bene il movimento multinazionale Ni Una Menos. Il movimento, che attraversa diversi paesi dell’America Latina, sta combattendo molte forme di violenza, in particolare il femminicidio, vale a dire l’uccisione intenzionale di donne e ragazze a causa del loro genere. (Un esempio: in Argentina, si dice che una donna viene uccisa ogni 30 ore.) Negli Stati Uniti, naturalmente, abbiamo il movimento #MeToo. Cosa ne pensa di queste mobilitazioni, diverse ma simili?

 Judith Butler: È importante sottolineare che ci sono molti femminismi in questo momento (come ce ne sono sempre stati), diversi tra loro per quanto riguarda focus e struttura. Ni Una Menos è un movimento che ha portato milioni di donne nelle strade dell’America Latina per combattere la violenza contro le donne, contro le persone trans e contro gli/le indigeni/e. Lo slogan “non una di meno” significa che non si perderà più nessuna donna a causa della violenza.

È importante sottolineare che è un collettivo a pronunciare questo appello: “Non si perderà nessun’altra dalla classe delle donne, questo collettivo in espansione che resiste alla violenza diretta contro di loro”. Ma anche: “Come donne, non perderemo un’altra vita”. Il movimento non si basa su un’idea ristretta di identità, ma è una coalizione forte e crescente che trae sostegno da donne e trans che lavorano, che appartengono a sindacati e chiese, che possono avere o meno relazioni con le università.

La feroce opposizione collettiva all’uccisione delle donne è fondamentale, ma questa è violenza anche contro le persone trans, in particolare le donne trans, e “las travestis” (che non sempre si identificano come trans). Questo è il motivo per cui a volte si parla di un movimento contro il “feminicidio” – tutt_ coloro che sono femminizzat_ o considerat_ femminili. Questo è importante perché non è solo che l’omicidio viene commesso sulla base del genere; la violenza contro le donne è un modo per stabilire la femminilità della vittima. La violenza cerca di mantenere la classe delle donne come uccidibili, sacrificabili; è un tentativo di definire l’esistenza stessa della vita delle donne come qualcosa deciso dagli uomini, in quanto prerogativa maschile.

Il movimento è anche una lotta per la libertà e l’uguaglianza, e combatte per il diritto all’aborto, il diritto alla parità di retribuzione e lotta contro l’economia neoliberale che sta intensificando la precarietà, soprattutto per le donne, gli/le indigeni/e e i/le poveri/e. Il diritto all’aborto si basa sul diritto di ogni singola donna ad affermare la libertà sul proprio corpo, ma deriva dalle richieste collettive delle donne di poter vivere liberamente i propri desideri senza l’intervento dello Stato e senza temere violenza, ritorsione e prigionia.

Il movimento si è distinto dai modelli individualisti di femminismo che si basano sulla libertà personale e sui diritti del soggetto individuale. Questo non significa che le storie e le esperienze individuali non siano importanti. Lo sono, ma i femminismi che non operano una critica al capitalismo tendono a riprodurre l’individualismo come una cosa ovvia. I collettivi si formano attraverso la realizzazione di una condizione sociale comune e di un legame sociale, riconoscendo che quello che accade ad una vita, che si tratti di violenza, debito o sottomissione all’autorità patriarcale, accade anche ad altre. E anche se possono darsi in modi diversi, ci sono dei patterns, come ci sono anche le basi per la solidarietà.

Negli Stati Uniti, “#MeToo” è stato molto potente nell’esporre il carattere pervasivo delle molestie sessuali e delle aggressioni in ogni tipo di luogo di lavoro. Non si può far finta di non sapere per quanto tempo le donne hanno subito molestie, ritorsioni e la perdita della loro carriera – la perdita di fiducia in coloro da cui spesso dipendono per il loro lavoro. Ma il “me” in #metoo non è lo stesso del collettivo “we”, e un collettivo non è solo una sequenza di storie individuali. La base della solidarietà, per un’azione collettiva, richiede che ci si allontani dalla presunzione dell’individualismo; negli Stati Uniti, la tendenza è quella di riaffermare quel principio del liberalismo politico a scapito di legami collettivi forti e duraturi. In Argentina, Ni Una Menos sta in qualche modo assumendo l’obbligo etico e politico di “Nunca Mas!” o “Never Again!”, forgiato all’indomani della dittatura. La distruzione e la scomparsa delle vite di migliaia di studenti/esse e attivist_ di sinistra ha portato ad una forte opposizione alla censura statale, alla repressione e alla violenza. Altrettanto orribile è l’uccisione delle donne, spesso aiutata e sostenuta dalla polizia e dai tribunali che non riconoscono il crimine e da un governo che si rifiuta di far valere gli stessi diritti delle donne a vivere la propria vita in libertà e senza temere la morte.

Yancy: Le ragioni di questi due movimenti sono legate a strutture politiche ed economiche che emarginano e opprimono le donne. Le strutture politiche ed economiche sono indissolubilmente legate al machismo, il senso tossico dell’identità maschile che si traduce nel diritto maschile al corpo delle donne; anzi, legato al fatto che le donne vivano o muoiano. Mi parli delle dimensioni performative del machismo.

Butler: Non sono più sicura di cosa valga come performativo, ma secondo me una delle ragioni per cui gli uomini si sentono liberi di disporre della vita delle donne come meglio credono è perché sono legati l’uno all’altro attraverso un silenzioso (o non così silenzioso) patto di fratellanza. Guardano dall’altra parte, si danno il permesso l’un l’altro e si garantiscono l’impunità a vicenda. In tanti posti, gli atti di violenza contro le donne, compreso l’omicidio, non sono nemmeno concepiti come crimini. Sono “come va il mondo” o “atti passionali” e queste frasi rivelano atteggiamenti profondi che hanno naturalizzato la violenza contro le donne, cioè fanno sembrare che questa violenza sia una parte naturale o normale della vita ordinaria. Quando gli uomini femministi rompono questo patto di solidarietà, rischiano l’esclusione da parte di alcune comunità, eppure questo tipo di defezione dalle file è esattamente ciò che serve.

A Barcellona, un uomo benintenzionato mi ha detto di non avere il diritto di partecipare a una manifestazione femminista contro la violenza. Ma non ero d’accordo con lui. Beh, forse sono d’accordo con lui: la partecipazione non è un diritto, è un obbligo. Ma gli uomini che si uniscono a questa importante lotta contro la violenza contro le donne e contro le persone trans devono seguire la leadership delle donne. Se si oppongono insieme al patto mortale di fratellanza che permette, devia ed esonera, lo fanno innanzitutto confrontandosi con altri uomini e formando gruppi che rifiutano la violenza e affermano l’uguaglianza radicale. Dopo tutto, quando si prendono le vite delle donne e delle minoranze di ogni tipo, è un segno che queste vite non sono considerare di uguale valore. La lotta contro la violenza e la lotta per l’uguaglianza sono collegate.

Yancy: In che modo il suo nuovo libro sulla non violenza parla di questioni circa la vulnerabilità delle donne?

Butler: Il nuovo libro, “The Force of Non-Violence”, si occupa delle donne, certo, ma di tutte le persone la cui morte non può essere pianta. Lavoro con l’idea femminista di “relazionalità” per mostrare non solo come le vite sono interdipendenti, ma anche come i nostri obblighi etici di sostentamento reciproco derivano da questa interdipendenza. L’interdizione contro la violenza è un modo per affermare e onorare quel legame basato sull’uguale valore della vita, ma questo non è un principio astratto o formale. Abbiamo bisogno l’uno/a dell’altro/a per vivere e questo vale tanto per i legami familiari o di parentela quanto per i legami transnazionali e globali. La critica dell’individualismo è stata una componente importante del pensiero sia femminista che marxista, e ora diventa urgente per provare a comprendere noi stessi/e come creature viventi legate a creature umane e non umane, a interi sistemi e reti di vita. Le varie minacce di distruzione possono assumere le forme della violenza di stato, del femminicidio, dell’abbandono dei/lle migranti, del riscaldamento globale. Dobbiamo ripensare i legami della vita per sapere perché siamo obbligati/e ad opporci alla violenza anche quando, o proprio quando, le ostilità si intensificano.

Yancy: In che modo la sua discussione sulla non-violenza affronta la nostra pervasiva pratica culturale di violenza specificamente maschile?

Butler: Questa è una buona domanda. Per me, la violenza non è propria degli uomini o maschile. Non credo provenga dai recessi degli uomini o che sia inserita in una necessaria definizione di mascolinità. Possiamo parlare di strutture di dominio maschile, o patriarcato, e in questi casi sono le strutture sociali e le loro storie che devono essere demolite. È difficile sapere come comprendere gli atti individuali di violenza all’interno delle strutture sociali che incoraggiano, permettono ed esonerano tali atti. Forse siamo creature sociali la cui vita è vissuta in strutture sociali che abbiamo un certo potere di cambiare. Quindi non credo che i singoli uomini possano additare le “strutture sociali” come scusa, cioè “la struttura sociale della dominazione maschile mi ha fatto commettere questo atto di violenza”.

Allo stesso tempo, è nostra responsabilità chiederci come stiamo vivendo, riproducendo o resistendo queste strutture. Così, anche se il cambiamento può avvenire a livello individuale, i modelli di giustizia riparativa ci dicono che gli individui cambiano nel contesto delle comunità e delle relazioni, ed è così che si costruiscono nuove strutture di relazione e si decostruiscono quelle più vecchie. E questo vuol dire che l’etica deve diventare più di un progetto individuale di auto-rinnovamento, poiché le vite si rinnovano insieme alle altre. Queste relazioni sono ciò che ci sostiene e, come tali, meritano la nostra attenzione e il nostro impegno collettivo.

(Traduzione di Clara Mogno)

Questo articolo è stato pubblicato su il New York Times il 10 luglio 2019.

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