di OFFICINA MULTIMEDIALE

Una premessa necessaria

Partiamo dal mesto assunto che – con l’eccezione di alcune intuizioni importanti e geniali, ma anche episodiche e spesso autoreferenziali quindi in sintesi irrilevanti, nonché volenterosi ed interessanti tentativi da parte di collettivi, di sensibilità e pratiche affini a chi scrive, di avviare confronti sul tema – sulla comunicazione la proposta dei movimenti sociali è priva di un adeguato strumentario tanto analitico quanto fattivo.

Come attivisti ed operatori del settore riteniamo sia di fondamentale importanza ri-aprire – aprire? – un dibattito a tutto campo per definire pensieri e strategie capaci di accomunare quanti ritengano che la questione ‘comunicazione’ sia imprescindibile per una crescita di un movimento d’alternativa costituente.
Con questo documento quindi intendiamo lanciare il nostro sasso, sperando a questo risponda una gragnola capace di interrompere il silenzio del presente.

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150.000 metri di pellicola, circa. 15.000 lire. Una vecchia Prevost, col piano in legno. Nasce così Verifica incerta, letteralmente dall’intestino tenue del cinema maiuscolo degli anni Cinquanta, pellicola hollywoodiana destinata al macero. Un film sul cinema attraverso le eccedenze che lo stesso produce. Alberto Grifi e Gianfranco Baruchello salvano la pellicola trouvée dal macero e le ridonano vita: “nulla si crea, nulla si distrugge”. Le immagini avrebbero continuato a scorrere, sarebbero state riconsegnate di nuovo al visibile. L’activity di Grifi e Baruchello ha voluto affermare la non appartenenza delle immagini al ciclo dell’industria che ne decreta la nascita, la visione e la morte. Le immagini sono fatte dagli uomini e appartengono a tutt*.

La riflessione sembra configurarsi dunque come una critica del visibile esistente, delle sue pratiche di costruzione e di ricezione. La Verifica affonda lo sguardo ed inizia un lavoro di recupero di ciò che il principio di non-evidenza offusca e ricopre. Si possono perciò incontrare riflessioni sulle convenzioni dell’industria filmica, sui metodi di rappresentazione del mondo, sugli stereotipi della rappresentazione, ma anche sulla prassi generalizzata della visione. La testualità filmica ragiona su se stessa, fa un esame pubblico dei propri diritti e delle proprie facoltà; in senso ampio si può riscontrare in Verifica incerta un potere sovversivo rispetto allo status quo della produzione e della fruizione dell’audiovisivo.

Grifi stesso considerava Verifica incerta un “film antagonista”.

«Distruggere le storie che loro, quelli di Hollywood, confezionavano così bene, ecco, farle a pezzi e rimontarle… […] Con quanto gusto noi spettatori avevamo risucchiato nel fondo delle nostre rètine avide le vostre immagini, o divi dello schermo e stelle del cinema, modelli di comportamento, eroi ed eroine… non ci rimaneva che tirarvi giù dal cavallo tanto per disinquinarci un po’, trascinarvi giù nel fango del nostro quotidiano. […] Abbiamo cercato di farvi a pezzi così come voi avete fatto a pezzi prima i musi rossi, poi i musi gialli… Ma mentre voi avevate il settimo cavalleggeri, il napalm e le bombe di Hiroshima e Nagasaki, io e il mio amico e pittore Gianfranco Baruchello avevamo appena una vecchia moviola in un sottoscala per farvi a pezzi…»1

Il potere di Verifica incerta non sta solo nella critica agli stereotipi di una cultura in inesorabile assetto egemonico, ai suoi tòpoi, alle figure ricorrenti. Nella ripetizione del gesto, nel decentramento si riscontrano le ideologie, i messaggi subliminali, la propaganda, la preminenza culturale e l’omosessualità repressa di gran parte del cinema americano. Una “battaglia a colpi di verità” ingaggiata contro il potere dove lo slittamento di posizione, funzione, significato sposta il problema sul piano della visibilità, ovvero – in termini foucaultiani – rendendo visibile ciò che non lo è.

Attraverso la de-costruzione si mette in gioco l’intero sistema narrativo e rappresentativo corrente.

Con Eddie Spanier, il non-soggetto – dissolto, fenomenicamente disincarnato e frammentato nei vari volti e paesaggi – si assiste ad un sistema d’attese reiterato all’esasperazione e mai assolto: gesti e conflitti accennati, sospesi, scollegati, ripetuti.

« […] quando in un film si apre una porta deve uscire qualcuno; se non esce allora deve nascere il sospetto di un fantasma. Quando, come in Verifica incerta, la porta si apre, e non esce nessuno, poi si riapre, poi appare ancora chiusa, quindi si vedono persone già uscite, infine queste persone escono di nuovo, in teoria c’è una spezzatura di un sistema di aspettative, di attese, di risoluzioni che fa si che lo spettatore si trovi improvvisamente in una situazione di shock, in una situazione di crisi.»2

Viene meno il principio di causa-effetto. Vengono meno le ragioni. L’anti-trama propone un livello cognitivo non più basato sulla narrazione, ma intravisto nella dissoluzione di questa. È qui che Verifica incerta si fa discorso sovversivo: tutto ciò che sottende alla fruizione e alla produzione dell’audiovisivo viene messo sul banco di prova. Vacillano le certezze.

Come e cosa si racconta con l’audiovisivo? Come si percepisce? Cosa significa vedere? Come si pensa l’audiovisione?

Il fatto in sé di dire la verità non è garanzia di alcuna riuscita. Il mondo è pieno di parresiasti la cui voce non ci arriva. Senza un saper dire la verità, questa si riduce ad incoscienza: diventa una scena da Ridere per ridere3, in cui un tizio si infila un casco, raggiunge un capannello di afro-americani, urla a pieni polmoni: «Negri!» e fugge inseguito dagli insultati… L’indicazione del dire la verità va nutrita di abilità, oltre che di forza: sapere farlo bene, imparare a saperlo fare bene, e questo è il compito di una vita4.

Riteniamo quindi quanto mai indispensabile analizzare e con-prendere le esperienze esistenti di costruzioni di narrazioni che si collocano fuori dell’ambiguità della produzione capitalistica, capaci di parlare da una comunità e non per una comunità.  Di uscire fuori dal ganglio di quella industria culturale agnostica capace di digerire tutto – anche l’uso ‘rivoluzionario’ delle piattaforme social – purché valorizzabile. Di costruire strumenti e metodi quali indispensabile autodifesa di fronte ad un potere di violenza inaudita che prolifera su processi d’espropriazione della cooperazione sociale.

Con ciò ci dichiariamo consapevoli del fatto che gli orizzonti che proviamo a disegnare vogliono, per ora, dare conto, soprattutto, di una ‘postura’. Di uno ‘sguardo’.

Il tema del come parliamo e come scriviamo e per chi va interamente e finalmente assunto.

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Le istituzioni, i luoghi della produzione e della condivisione della conoscenza, le rispettive funzioni e relazioni sono soggetti a cambiamenti drammatici che non hanno ancora prodotto assetti stabili, posto che mai accada. Ciò che non è più possibile fare è tagliar fuori una qualsiasi tipologia di nodi della rete di produzione/conservazione/distribuzione dei saperi. Ciascuna mappa o grafo ne costituisce una descrizione parziale e provvisoria. La mutazione in corso approssima una dimensione antropologica che osserviamo nelle forme che assumono le relazioni interpersonali e sociali, nella trasformazione dei linguaggi, dei media utilizzati e delle competenze linguistiche in senso lato.

Come soggetti mutevoli entro un ambiente mobile siamo costretti ad agire entro processi di conflitto e di cooperazione, dove la trama delle relazioni solidali, dei dispositivi devono essere all’altezza delle ‘forze’ che plasmano la realtà. Non c’è altra scelta.

Gli attori sociali godono di nuove opportunità per pratiche d’intervento, ampio accesso a strumenti e tecniche per la costruzione stessa di capacità comunicativa5, intesa come insieme di processi associati alla costruzione delle reti, agenti-chiave per il sostegno di istanze antagoniste: il supporto delle azioni collettive, la condivisione di obiettivi ed interessi, la sfida dei rapporti di potere esistenti.

La disponibilità e l’uso delle testualità complesse e delle reti digitali, la comunicazione strategica e la capacità medesima di sviluppare informazione, la disponibilità di mezzi relativamente economici per la produzione mediale e l’agilità del contenuto digitale di percorrere piattaforme di distribuzione multipla consente di produrre i propri messaggi, circolare nel locale e nel transnazionale, estendere ed approfondire relazioni strategiche e provarsi in nuove ed estese forme di collaborazione.

La tecnologia riordina le azioni collettive in una logica reticolare, moltiplicata e resa possibile dai network medesimi; crediamo tuttavia che l’organizzazione tradizionale e gli obiettivi continueranno ad informare le pratiche dei movimenti sia on che off line. A noi si ascrive di raccogliere testimonianza su come la comunicazione venga agita, l’uso strategico che se ne abbia a fare.

La definizione e la delimitazione di territorio, dunque, è a sua volta oggetto di una ricerca che si confronta con i processi che al tempo stesso lo connettono e lo frammentano, lo collocano o lo separano dai flussi globali. Una descrizione efficace dell’habitat – dei suoi limiti e dimensioni – nasce dalla presa di parola, dalla capacità di territorializzare i linguaggi rispetto ad intrecci e conflitti che contendono ogni aspetto della condizione di vita individuale e collettiva.

Potremmo scoprire quanto siano fortemente differenziati tra loro i territori: dalle aree metropolitane, alla trama della città diffusa, alle aree marginali. Spesso le une intrecciate con o contenute dentro le altre. Nella nostra capacità di agire linguaggi e costruire relazioni intendiamo farci parte di una grande con-ricerca.

La comunicazione degli attori sociali intende rinegoziare codici, identità e relazioni, forme di cultura d’opposizione oltre l’ordine dominante, comunicare estesamente il dissenso e accrescere la conoscenza delle forme di repressione e marginalizzazione operata dai soggetti egemoni. Ancora, articolare e difendere interessi ed alternative. Eppure, gli spazi dell’oggi restano laterali rispetto a poteri e strategie dominanti.

L’obbiettivo non può quindi e non deve essere solo creare i propri network, ma accedere e ri-programmare i network mainstream. Le reti sono la chiave in cui – ad attorno alla quale – le forme di potere creano e gestiscono i rapporti di forza, fabbricano la maggioranza prototipando – stereotipando – la produzione in un processo che taglia fuori l’innovazione e l’emergenza del diverso.

Avevamo dato per spacciato il luogo televisivo mentre questo ha permeato la rete. L’incremento delle forme di distribuzione, lo sviluppo delle opzione on-demand, la moltiplicazione dei canali e degli accessi da dispositivi mobili ha riorganizzato ed allargato a dismisura i mercati, ne ha abbattuto i recinti con l’invasione di nuovi protagonisti ed una straordinaria concentrazione finanziaria.

I social network, lo sviluppo tecnologico degli strumenti di produzione hanno creato un campo smisurato di auto-produzione, una straordinaria cooperazione creativa che costituisce la materia prima per una messa a valore da parte del nuovo mainstream.

La differenza fondamentale determinata dalle nuove forme di distribuzione è la produzione di una quantità inusitata di dati sugli utenti dei socials, per i quali è stata coniata la definizione di ‘big data’. capaci di sostanziare analisi su campioni che definiscono la totalità delle realtà analizzate, colte nei loro mutamenti in tempo reale. Ritenere che esistano soluzioni di continuità nei processi che generano questi flussi d’informazioni, separazione tra le agenzie deputate alla loro valorizzazione – a fini commerciali, finanziari o di governo e controllo/repressione – sarebbe un’ingenuità imperdonabile. Assistiamo al progresso del marketing che tanto successo ha avuto sulle televisioni commerciali.

Si moltiplicano analogamente a dismisura le possibilità e le forme di conflitto, le soggettività disponibili, dotate di competenze necessarie.

Proprio per questo, se l’obiettivo è il cortocircuito, non ci si può accontentare di una “nazione indiana”, ma abilitar-e/-si a collocarsi nella vita sociale ed interagire in forme spazio-temporali capaci ad un tempo di essere locali, nazionali, transnazionali.

L’intervento deve essere generativo: costruire, programmare, connettere reti con obiettivi, valori, interessi condivisi. Il “network-making power”6 è generato da due meccanismi, programmare e scambiare.

La nostra capacità di generare, diffondere, e toccare gli ordini discorsivi in cui albergano gli eventi condiziona l’abilità di formare ed informare ed, in definitiva, l’azione.

L’empowering si genera dalla comunicazione d’interessi alternativi e valori tramite le reti, dall’interruzione dei meccanismi di scambio dominanti che le intessono. Il progetto che ci attende ha le caratteristiche di ricerca azione che – mentre realizza la propria produzione mediale, costruisce canali e luoghi di diffusione –  sviluppa un’inchiesta sulla comunicazione sociale, sulle sue forme, sulla condivisione dell’informazione e delle conoscenze su scala territoriale.

Per le considerazioni fatte, per la realtà che conosciamo si tratta di intervenire nella carne e sangue della vita dei luoghi, agire sulle forme di rappresentazione ed auto-rappresentazione della realtà, sui processi di partecipazione o di rimozione delle esperienze di vita, sulla memoria – variamente stratificata, rimossa o condivisa – d’individui, gruppi e comunità. Nei territori in cui si situano, i movimenti generano nuove descrizioni, producendo nuova conoscenza. Nuove narrazioni costituiscono una necessaria posta in gioco. Ogni movimento genera il proprio modello di mondo e ne fa contenuto vivo, oggetto di conflitto con le proprie controparti ed anche al proprio interno.

Emerge in tutta evidenza la necessità di costruire archivi, luoghi d’intenzionale e progettuale messa in comune di esperienze, discussioni, immagini ed immaginari così da non sprecare l’enorme patrimonio – troppo parcellizzato e spesso sconosciuto – ed attivare cooperazione tra quanti attribuiscano al proprio discorso il valore di una ‘pratica d’intervento’.

Dal G8 di Genova in poi l’attivismo mediale s’é dato come compito primario il documentare con continuità la successione degli eventi di percorsi di mobilitazione, lotta e conflitto. Gallerie fotografiche, riprese amatoriali – perfino i prodotti più professionali – tradiscono una concezione evenemenziale del documento. Poche sono state le letture più complesse capaci di scavare nel tessuto delle esperienze individuali e collettive, delle emozioni, dell’immaginario e del linguaggio, nelle relazioni di continuità, contiguità o cesura con il mondo che non direttamente vive il conflitto o addirittura ad esso si contrappone.

I network sociali rappresentano con una certa fedeltà il grado di diffusione di questi prodotti, si mischiano e si legano ai commenti in siti e blog più o meno dedicati e con essi rientrano nei cicli dei socials, dove circuiti diversi per ‘lignaggio’, citazioni ed esperienze s’incrociano, talvolta si citano e si contaminano, ma sostanzialmente restano estranei. La fruizione e l’uso minimale e continuo dell’immagine, del multimediale caratterizzano una miriade di micro-perimetri – per certi versi culturalmente omogenei – non ascrivibili alle aree della critica militante dell’esistente.

La scala dei circuiti della produzione critico-conflittuale non richiede la metodologia d’analisi dei ‘big data’, basta spostarsi da un’area d’amicizia ad un’altra, osservando i nodi in cui i commenti  s’incrociano: sulla rete per altro vive il fenomeno della più grande liberazione e condivisione mai vista di conoscenze, da fonti autorevoli e certificate, da pratiche di cooperazione e messa in comune, opposta ad un processo di appropriazione privata e messa a valore delle più intima esperienze ed emozioni – comunque trasmissibili con adeguato linguaggio.

Produrre inclusione nei network, nel combattere quella miopia che predestina degli ambiti di prossimità degli attori sociali fuori dalla sfera della comunicazione in rete, impone di connettere il locale ed il globale: come raggiungere il globale dal locale? Come fare attraversare la base dallo spazio dei flussi? Ri-programmare i discorsi intorno all’uso della tecnologia. Creare materiali transnazionali per usi locali: intercettare esperienze di attivismo capaci di de-centrare la tecnologia e mettere in primo piano le storie.

Memoria e passioni, emozioni e conoscenza.

Assumiamo, ad esempio, l’esperienza di un territorio afflitto da e che lotta contro l’inquinamento – quale l’area della valle del fiume Sacco, nel Lazio meridionale, in cui chi scrive agisce con internità – dove contemporaneamente crescono la miseria e le differenze sociali. Si devono mettere in discussione le conoscenze e le rappresentazioni di tutte agenzie preposte alla formazione, all’informazione al coordinamento e condivisione di saperi specialistici, alla regolazione giuridica ed amministrativa della vita sociale. Chi ha fatto questa esperienza sa che non esiste una separazione tra linguaggi caldi – portatori d’emozioni, sintetici – e freddi – procedurali e analitici.

S’interpretano le trasformazioni organiche indotte da patologie – indotte da interazioni con fattori inquinanti con cause multifattoriali –  mentre si ridà vita alla memoria, all’esperienza in cui si legge l’azione di quelle cause, si mette in scena la speranza di futuro nata un tempo dal lavoro trasformata nella disperazione della malattia e della morte. Si rappresentano le passioni feroci del potere e del profitto, che giocano sul filo dell’interpretazione delle norme dei tempi e dei modi della loro applicazione.

Lo scontro sul principio di precauzione prende vita quando un ragionamento astratto si salda alle ragioni della vita di un’intera comunità.  Il percorso che porta all’emancipazione – da potenti meccanismi di subordinazione e rimozione collettiva – alla partecipazione attiva passa per la capacità di evocare e condividere esperienze facendone base di conoscenza, di scoprire in esse l’agire di dispositivi intuiti, ma rimossi ed infine compiutamente capiti.

Lavorare sugli open data per aprire gli archivi di informazioni che tutt* ci riguardano, usare l’open access per raggiungere conoscenze altrimenti indisponibili e usarle attraverso la mediazione di chi le produce direttamente – attivando un percorso di formazione molteplice e collettivo – non diventa pratica possibile e condivisa se non si danno gli strumenti affinché prendano parola le passioni, le emozioni e le esperienze, si rappresentino e si condividano, si capiscano, si apprendano, si facciano propri i percorsi concreti di un intero corpo sociale.

Nei processi d’apprendimento, di trasmissione dei saperi agiscono ed interagiscono tutti i caratteri genericamente umani, le diverse scale temporali dell’esperienza propria e condivisa, delle biografie singolari e collettive. Il superamento del passato in nome dell’innovazione si fonda sull’appropriazione e rielaborazione d’ogni memoria, su scala umana, biologica ed evolutiva. La sua costruzione, quindi, e la metodica della rievocazione di un racconto del passato – spesso controverso – è necessaria, tanto più in quanto ci è espropriata, negandone di fatto il valore nella riduzione ad episodio contingente e transitorio che assume una qualità solo nei grandi numeri e/o superata nel suo senso da rotture ed innovazioni continue. Ovvero resa inutile dalla miseria del presente.

Colui il quale non ‘presentifica’ l’atto del ricordare non costruisce ed immagina il proprio futuro, vive l’esperienza dello spaesamento, subisce e non agisce il cambiamento, è costretto entro circuiti dell’auto-rappresentazione. Le condizioni d’appartenenza ad una comunità diventano sempre più precarie, crescono i fenomeni di e-migrazione, mentre si frammentano gli spazi ed i tempi della vita precaria.

Il senso d’appartenenza diventa più fragile. O più feroce.

In questa situazione va intesa la presenza dei migranti – consolidata, sempre più rilevante nella riproduzione sociale, pienamente inserita nei processi di valorizzazione –  che ha modificato culture materiali, relazioni e conflitti. Le migrazioni negli ultimi mesi hanno rotto ogni gradualità, il salto di scala dei flussi ha sconvolto i fragili equilibri degli apparati istituzionali europei, s’appresta a sconvolgere ulteriormente la precarietà degli assetti istituzionali e sociali.

I migranti – se vivono condizioni di feroce sfruttamento, di riduzione alla nuda vita – esprimono altresì la volontà di costruire il proprio futuro: l’impossibilità di un ritorno ad una condizione precedente, l’adeguamento al presente precario. S’apprestano ad infrangere – assieme a muri e barriere e a confini nazionali, così presenti nell’Europa unita – barriere e recinzioni dell’incerto vivere quotidiano. Non è possibile formulare ipotesi sugli esiti di questa rottura: vanno ben oltre ogni comprensibile auspicio.  Il corpo migrante – indiscutibilmente – infligge l’ultimo colpo ad ogni pretesa di determinare confini e realtà territoriali in via definitiva, ammesso che ancora se ne riconosca un senso. Il linguaggio di questi percorsi chiede di essere anzitutto: i valori incarnati sono ipso facto probanti. Corpi virtuosi, capaci di ribaltare il concetto del testimonial nel riconoscimento del valore sociale del testimone, della sua reputazione7.

Siamo in presenza – ad essere prudenti – di una trasformazione radicale di regole, istituzioni, processi di valorizzazione e cooperazione, di con-testi, i cui esiti ci sono ampiamente sconosciuti benché i suoi effetti appaiano evidenti. Di fronte a ciò tocca essere umili, eppure osare molto.

Dopo lo slittamento semantico che ha liberato il lemma “occupy” da ogni consueta associazione ad eserciti, nazioni, corpi di polizia per consegnarla ad un ordine discorsivo fatto di insorgenza, protesta – non più di occupare uno spazio, ma segnatamente di trasformare uno spazio – è arrivato il momento quindi di dichiarare che se occupare significa prenderepredare – vorremmo adesso compiere un passaggio ulteriore.

Sostituiamolo con decolonizzare, per tenere da conto la nostra storia, la Storia, le istanze anti-egemoniche ed anti-capitaliste. Occupare non è inerentemente portatore di valori, nessuna parola lo è finché non è abitata. Siamo noi qui, quindi, a dichiararlo: vogliamo occupare il linguaggio.

 


 

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  1. Grifi A., Perchè, da un sottoscala, facemmo a pezzi Hollywood, in Subrizi C. (a cura di), Baruchello e Grifi. Verifica incerta. L’arte oltre i confini del cinema, DeriveApprodi, Roma, 2004. 

  2. Eco U., intervento all’incontro del Gruppo 63 a Palermo nel 1965, in Balestrini N., (a cura di),  Gruppo 63, Il romanzo sperimentale, Feltrinelli, Milano, 1966. 

  3. The Kentucky Fried Movie (titolo originale), di John Landis, 83’, Gennaio 1985 (Italia). 

  4. Cfr. Tronti M., Politica e destino, Sossella, Roma, 2006. 

  5. Cfr. Castells M., The network society: A cross-cultural perspective, Edgar Elgar, North Hampton, MA, 2004. 

  6. Ibidem 

  7. In tal senso resta rappresentativa per chi scrive l’esperienza del lavoro audiovisivo Matte’Matte’ Garbatella aspetta a te (https://youtu.be/dvHJBNj5Zt8).