Una scelta ragionata di interventi sul 7 gennaio, la strage di Charlie Hebdo e dell’iper kosher, le manifestazioni di place de la République. Per fare il punto, e continuare a discuterne.

Marco Bascetta, «Liberté, égalité, fraternité» e il loro doppio – 08.01: qui

Charlie Hebdo è stato davvero ucciso dai suoi assassini ma si accinge ad essere sepolto da chi, strumentalmente, ne fa lo stendardo dei propri pregiudizi. Non mancano, però, tra quanti in questi giorni celebrano i giornalisti di Charlie come martiri della libertà, numerosi paladini della superiorità occidentale che, tra furori proibizionisti, campagne omofobe, tolleranza zero e anatemi contro la «società permissiva», intrattengono un rapporto a dir poco problematico con la libertà. Immagino che alle matite anarchiche di Charlie non sarebbe affatto piaciuto diventare un simbolo per questa gente. Non sono solo gli islamisti a non avere ancora digerito la Rivoluzione francese. A cia­scuno i suoi inte­gra­li­sti da debel­lare.

Marco Assennato, Quattro tesi sul 7 gennaio 2015 – 10.01: qui

C’è un moto di indignazione collettiva che si sta per mettere in piazza, che poi vi si trovino contraddizioni e limiti, rigurgiti neocoloniali e ambiguità, mi pare una ovvietà. Che si debbano indagare le cause profonde di tutto ciò, è altrettanto evidente. Ma qui si gioca una partita secca tra la complessità che abita le moltitudini d’Europa e un immenso dispositivo di identificazione e isolamento di ciascuna e ciascuno di noi. Solo a questo vale dire Je suis Charlie: è un nome collettivo, o il contrario di un nome, anonimo, multiplo, utilizzabile oggi e solo oggi, da tutte e tutti. Chi non ha tempo di rifletterci, per capirlo, se lo prenda, questo tempo.

“Dinamo Press”, Da Charlie Hebdo alla guerra globale, due domande a Toni Negri – 13.01: qui

C’era aria buona nella manif. Non dava davvero l’impressione dei cortei dei fascisti e dei cattolici integralisti dell’autunno. Il ceto politico sembra superato da questa manif. Vedremo cosa succede. Vedremo se si avrà la forza politica (e il buon senso) di riaprire il dialogo bloccato dal 2005 con la banlieue; vedremo se si riuscirà a sconfiggere quello scervellato uso della crisi che può solo creare fascismo e sciovinismo. La guerra – quella vera, quella grande – non ci sarà ancora e, se la fanno, i nostri signori la perderanno, prima di tutto all’interno delle loro belle nazioni, poi all’esterno nel mondo globalizzato. Comunque vogliono farci paura. In questa situazione – pensando a noi – bisogna comprendere che i tempi per organizzarsi politicamente, per far emergere dall’orizzontalità dei movimenti una verticale politica che sappia esprimere forza e programmi politici, è urgente – se non vogliamo aver più paura e sentiamo (come in molti hanno sentito durante la manif dell’11/01) che la nostra povertà e la nostra fraternità possono vincere.

Beppe Caccia, Luca Casarini, Oltre. Dopo Parigi, con Atene, verso Francoforte. E oltre – 15.01: qui

Punto primo: chi irrompe nella redazione di un settimanale per assassinare disegnatori satirici, giornalisti, collaboratori e chiunque gli si pari davanti, è un fascista. Così come è un nazista chi pianifica la strage di bambini in una scuola materna ebraica e poi ripiega, per comodità, sulla presa di ostaggi in un supermercato kosher. Su questo punto non ci possono essere dubbi, né tentennamenti, né parallelismi possibili. Punto secondo: questi sono gli stessi nazisti autori del contemporaneo massacro di duemila persone inermi in Nigeria. È un nostro nemico, un nemico dell’umanità, chiunque voglia in tal modo imporre la propria concezione totalitaria, sia essa di matrice religiosa e/o politica, gerarchica,autoritaria, oppressiva delle relazioni sociali. Non ci possono essere giustificazioni né sconti per l’ideologia e la prassi jihadista, per il fondamentalismo e l’integralismo, concezioni ed esperienze storiche che sono feroci e irriducibili antagonisti di qualsiasi ipotesi di liberazione. Chi abbia ancora dubbi è vivamente pregato di rivolgersi in proposito alle compagne e ai compagni che resistono a Kobane e di farsi chiarire definitivamente le idee da loro.

Giovanna Zapperi, I confini della République – 16.01: qui

È pericoloso che la reazione agli attacchi jihadisti debba per forza tradursi nell’identificazione con Charlie perché questo significa perdere di vista proprio quelle asimmetrie che dividono la Francia e a partire dalle quali si ridefiniscono le poste in gioco del razzismo in una fase così fortemente segnata dalla crisi economica e politica che avvolge l’Europa. Da questo punto di vista, brandire “Je ne suis pas Charlie” per affermare una presa di distanze rispetto agli aspetti più discutibili di Charlie Hebdo, finisce poi con il rafforzare la polarizzazione tra “noi” e “loro” sulla quale si fondano i meccanismi di identificazione che hanno così tanto spazio nel dibattito pubblico, con il rischio di cadere in una semplificazione che non possiamo proprio permetterci.

Judith Revel, Per un 11 gennaio dell’Europa? – 16.01: qui

È chiaro che le banlieues, da problema, devono imperativamente diventare parte della soluzione. Se non decidiamo di reinvestire tutti gli spazi (urbani e sociali) che sono stati abbandonati dallo smantellamento del Welfare, vale a dire immediatamente consegnati all’estremismo (politico, nel caso del Front National; ma anche religioso, nel caso delle banlieues naufragate a forte popolazione musulmana, laddove la disoccupazione è esplosa e lo Stato si è letteralmente ritirato), avremo Marine Le Pen al 45% alle prossime elezioni. Se invece trasformiamo l’11 gennaio e facciamo dell’indignazione – aggiungendovi la parola d’ordine politica della fraternité – un motore delle lotte, allora, forse, una banda di anarchici, erotomani, miscredenti, surrealisti, blasfematori – come, da Rabelais in poi la cultura francese ha saputo avere nella sua tradizione – non sarà morta invano. Qualcuno dirà: quei quattro milioni esprimono il ceto medio francese, la sua whiteness, la sua normalità sociale. No: le piazze, domenica, non mostravano quello spettacolo. Proviamo dunque a scommettere su una nuova composizione sociale, proviamo ad accettare la sfida della novità.

Sandro Mezzadra, Questioni di confine – 17.01: qui

I tre attentatori di Parigi erano francesi. E Ahmed era il nome di una delle loro vittime. È bene partire da qui per ragionare su quanto è accaduto. Una fotografia non solo della Francia, ma dell’Europa contemporanea, dell’intreccio di geografie e culture, religioni e lingue che ne definiscono la composizione. Si tratta ancora una volta, evidentemente, di questioni non solo francesi, che assumono tuttavia in Francia caratteri peculiari. Nel 2005, il fuoco delle banlieue in rivolta aveva illuminato alcuni di questi caratteri: ma anche al di là del riferimento alle banlieue, la difficoltà che in questi giorni musulmani e neri francesi hanno incontrato nel riconoscersi negli appelli all’unità repubblicana vanno ben al di là dei processi di radicalizzazione islamista. I tumultuosi processi di ridefinizione degli equilibri globali, che stanno spiazzando l’Europa e configurando un mondo oltre la centralità dell’Occidente, costituiscono in questo senso – oltre che una fonte di rischi – un’occasione e una sfida. La lotta per la reinvenzione dell’Europa come spazio di libertà e uguaglianza non può che essere collegata con la costruzione di un nuovo rapporto dell’Europa con altre aree del mondo, con un nuovo modo di interpretarne politicamente i confini.

Girolamo De Michele, #jesuishumain – 02.02: qui

Una cosa è la concezione liberale di libertà, eguaglianza e fratellanza, un’altra quella concreta, materialista – si può dire: comunista?. Così come un conto è opporsi ai principi della rivoluzione francese perché sono rimasti sulla carta – dunque lottare per concretizzarli nelle vite e nei corpi degli esseri umani, un conto opporvisi perché si è contrari alla libertà, all’eguaglianza, alla fraternità – dunque lottare, come fanno i fascisti di ogni risma e colore, fra i quali gli ubriachi di ideologia salafita e jihadista, per una società governato dalla disuguaglianza, dalla servitù e dalla schiavitù: perché Fraternité significava abolizione della schiavitù. Il che, nell’ideologia jihadista, è un male del tempo presente, un abbaglio satanico. Questi jihadisti sono dei fascisti, senza se e senza ma. E questa strage costringerà a riformulare, ad ampliare il concetto di fascismo. Non si tratta di sapere chi si è, men che meno di aggrapparsi a un’identità. Si tratta, però di sapere cosa non si vuol diventare, cos’è giusto e cosa non lo è: #jesuishumain.

Marco Assennato, Note sul dopo Charlie – 19.02 : qui

Rovistando negli armadi della memoria, a qualcuno è parso intelligente rispolverare la critica marxista del liberalismo. Libertà di espressione? Laicità? Che c’importa di questi vessilli universalistici già rovesciatisi nella tragica dialettica dell’illuminismo in imperialismo culturale, colonialismo e oppressione? Qualcuno ha persino preteso di parlare “da terra, e non dai cieli dell’ideologia” spacciando per materiale d’inchiesta una serie di pensieri scritti in salotto, con l’Ipad ben acceso e sintonizzato sulle pagine di Le Monde. […] Che il rinchiudere la lettura dei fatti nei confini nazionali e in chiave securitaria fosse pericoloso – parte del problema più che sua soluzione – lo avevamo capito tutti e per tempo. Non occorreva particolare arguzia. Ma al discorso istituzionale non si risponde negandosi, si risponde agendo conflitti politici. Proprio perché si tratta di combattere un immaginario dicotomico e universalista, occorre armarsi di precisione e complessità

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