Di FRANCESCO FESTA

La mia generazione ha conosciuto Toni Negri a cavallo fra i due secoli, fra il XX e il XXI. Il neoliberalismo, all’epoca, si andava imponendo come dottrina imperante. La storia era finita profetizzavano i parrucconi del capitalismo globale. Il regime di verità neoliberale andava disponendosi lungo il crinale di parole d’ordine quali performance, competizione, valorizzazione, flessibilità, adattamento. Insomma, essere imprenditori di sé stessi sarebbe stato il verbo a venire. O dentro, o fuori.

In quel frangente andava nascendo un movimento al cui interno conviveva una molteplicità di movimenti: dai centri sociali all’associazionismo cattolico, dal mondo del pacifismo alle realtà del terzo settore, dal sindacalismo istituzionale a quello autorganizzato; e tanto altro ancora. Apparve il “movimento dei movimenti”, in cui si formò la generazione noglobal. Quella generazione che avvertiva gli scricchiolii del capitalismo storico e, così, denunciava la devastazione ambientale, l’impoverimento delle classi subalterne ma anche dei ceti medi, la finanziarizzazione della vita e la privatizzazione dei beni comuni. E gridava e costruiva un altro mondo possibile. Seattle, Praga, Davos, Napoli, Göteborg, Genova, fra il 2000 e il 2001; poi, l’intermezzo dell’11 settembre, l’articolazione dei social forum territoriali, fino alla grande manifestazione dei Social Forum di Firenze del 9 novembre 2002.

Lungo quel crinale Toni Negri e Michael Hardt diedero alle stampe Impero. La mia generazione lo divorò come il pane. Ne sentiva il bisogno. Avevamo bisogno di un alfabeto di concetti, termini, parole giuste per decifrare quanto ci stava accadendo. Toni e Michael ce lo offrirono, con tutto il portato di polemiche e discussioni dentro e fuori gli ambienti di movimento, così come, dentro e fuori le aule universitarie. Impero, imperialismo, postmodernismo, leninismo: contrapposizioni concettuali e politiche, come se si giocasse a risiko fra le realtà di movimento. Il dibattito era straordinariamente interessante, richiedeva continua attenzione per non perdere pezzi, e si dispiegava fra assemblee, riunioni e seminari. Di certo il magnum opus è di per sé qualcosa che suscita dibattito, provoca dialettica, squarcia il velo del consenso: un’opera che non lascia nulla al caso, anzi, richiede una presa di posizione.

A dir il vero, Toni l’ho conosciuto un po’ prima tramite il libro 33 lezioni su Lenin. Un libro che mi trovai sotto mano, insieme a tante altre copie dello stesso, mentre ordinavo l’archivio-libreria del Centro sociale Officina 99/Ska di Napoli. Mi colpì subito l’insolita edizione. Una copertina grigia, pareva usurata, con il volto di Lenin dentro una scacchiera. Strana edizione, pensai. Infatti, era un’autoproduzione distribuita nei centri sociali negli anni Novanta, a mo’ di materiale d’autoformazione a uso interno.

A margine delle assemblee o nelle chiacchierate coi compagni più anziani, durante i cortei, tornava spesso il nome di Toni. Molte volte senza approfondirne il pensiero, ma soltanto ripercorrendo la nostra biografia: Potere Operaio, Rosolina, l’Autonomia Operaia Organizzata, i Comitati Autonomi Operai, il ’77, “Rosso”, via Disciplini, ecc. Come dei grani da scorrere in una trasmissione di memoria, dove la sua presenza era immanente, vitale nelle lotte di classe e nei tentativi di trasformazione sociale. Anche se il suo pensiero mi era poco chiaro, nel ritmo delle lotte invece ne deducevo il senso. Volli capirci di più: entrare nell’officina delle sue idee; leggere quanto più possibile, nel tentativo di coglierne ogni significato, provando a sintonizzarmi con le tendenze delle sue elaborazioni. I libri del rogo, Il lavoro di Dioniso, Il potere costituente, Pipe-Line, L’anomalia selvaggia, e tanto, tanto altro ancora. I suoi libri, pesantissimi fra l’altro, mi hanno accompagnato nei mille traslochi.

Alla mia generazione, Impero, ha offerto le chiavi di lettura dei processi economici e culturali della globalizzazione neoliberista, ove andava emergendo un nuovo ordine mondiale, sparigliando gli stati-nazione, e imponendo la propria governance globale, in uno spazio tempo nuovo della produzione e della riproduzione capitalistiche. Il magnum opus di Negri e Hardt, dopo qualche anno, divenne trilogia, con le opere, Moltitudine e Comune, ossiale soggettività della trasformazione al tempo della globalizzazione (“una molteplicità di singolarità, già meticciata, capace di lavoro immateriale e intellettuale, con una potenza enorme di libertà”) e il processo costituente.

Allo stesso tempo, in una sorta di lotta di classe globale, la mia generazione attraversava lo statu nascenti del movimento noglobal: speranze e orizzonti comuni, con una potenza tale da pervadere la società tutta. La mia generazione si sentiva potente nell’essere in movimento tramite network internazionali, in un rizoma di desideri, dal locale al globale: dal Chiapas a Seattle, da Praga a Göteborg, da Napoli a Genova. Quel movimento aveva intessuto una maglia di contropoteri che, in determinati momenti, aveva messo in scacco le potenze occidentali. Cortei moltitudinari, migliaia e migliaia di persone; la “guerriglia comunicativa”, per cui ogni azione, da un’assemblea a un sit-in, era oggetto d’attenzione di giornalisti locali per poi rimbalzare nei telegiornali nazionali e internazionali. Pareva che l’egemonia culturale pendesse tutta dalla nostra parte. Non ho vissuto gli anni ’70, ma ricordo vividamente che quei mesi per me sono stati un rivolgimento quotidiano. “Faccio movimento per il movimento” – cantavano gli Assalti Frontali. E la mia generazione viveva giorno dopo giorno per tenere aperto il movimento, intercettando nuove istanze del lavoro vivo –una composizione sociale tanto produttiva quanto precaria e impoverita – e anticipando le tendenze dei processi di accumulazione. Un susseguirsi di iniziative di lotte, manifestazioni, assemblee per evitare il riflusso del movimento che spostava consenso adoperando pratiche conflittuali. Conflitto e consenso, una coppia sinonimica come una sorta di imperativo in quegli anni: ogni azione messa in campo doveva tener conto del consenso da spostare a nostro favore – o anche contro.

Era il 2002. L’aula magna di Porta di Massa, quella di Lettere e Filosofie della Federico II di Napoli, era stracolma di ragazze e ragazzi della mia generazione. Si presentava Impero, per l’appunto. Giuseppe Di Marco e Gianfranco Borrelli presentarono il volume, introducendo Toni e moderando un dibattito molto vivo, ça va sans dire.

Al termine, nel chiostro, un compagno di Officina 99: “France’…France’. Vieni a pranzo con Negri?”

“Chi?”

“Negri. Toni Negri. Andiamo! Ci vuole parlare.”

A pranzo. Non pronunciai parola. Forse non fiatai neppure. Ascoltai i più grandi – eravamo in cinque o sei a tavola – e quanto diceva Toni. Mi sembrava la materializzazione di un sogno, di un’idea di cui avevo divorato tanto, ma mai abbastanza. Ci parlava della necessità dell’inchiesta, di fare inchiesta fra i nuovi lavoratori autonomi, dentro le molteplici forme del precariato. E poi, di “Posse”, la rivista, chiedendoci di contribuirvi e prendere parte alla redazione.

Dopo pranzo, una fugace visita a Piazza San Domenico. Ricordo che il suo passo era attento, premuroso, come se qualcosa lo impensierisse. Salimmo in macchina, velocemente, verso la stazione. Doveva tornare a Roma, in effetti. Rientrava a Rebibbia, dove ancora scontava l’ingiusta pena. Ci abbracciammo sotto il treno: “a presto, compagni”.

Rotto il ghiaccio. Lo incontrai, poi, alla Galleria Umberto, in una tarda mattinata primaverile. Nel pomeriggio, presenziava a un evento alla Mostra d’Oltremare, credo fosse la presentazione di qualcosa. A un tavolino, insieme ad Antonio e Francesco parlammo principalmente della rivista e dei percorsi di inchiesta. Erano i mesi dei Social forum territoriali, fra il 2002-2003. A Napoli, il Social forum raccoglieva i resti della Rete Noglobal, e non solo. In Italia, i mesi successivi al Social Forum di Firenze (6-9 novembre 2002) e al corteo di un milione di persone provenienti da mezzo mondo. Erano anche i mesi successivi al teorema giudiziario della procura di Cosenza, inizialmente, contro la Rete del Sud Ribelle, con diciotto arresti e cinque notifiche di misure domiciliari e poi esteso a tutto il movimento: dal Veneto a Roma, da Napoli alla Puglia, a Cosenza e alla Sicilia, un calvario giudiziario durato quasi dieci anni, terminato con l’assoluzione del 21 giugno 2012.

E poi, Uninomade, Euronomade, i seminari e le assemblee in giro per l’Italia. In questi giorni, un turbinio di ricordi mi sono passati. Le giornate di Passignano, in particolare. La preparazione, gli appunti, le discussioni. Le cene, i momenti conviviali in cui il sorriso di Toni contagiosamente ci catturava.

E ancora, gli scambi su Napoli e il Mezzogiorno. I tentativi da parte nostra di organizzare degli studi che affiancassero i cicli di mobilitazione della metà dei Duemila, cioè, le lotte contro le discariche, gli inceneritori e i rifiuti. Gramsci, i postcolonial e i subaltern studies, Orizzonti meridiani, Briganti o emigranti. Erano cose di cui voleva sentire gli sviluppi. La sua instancabile curiosità: le domande, gli occhi vispi per catturare racconti e analisi di quelle lotte – ché a Napoli, spontaneamente od organizzati, ciò nondimeno all’interno di un’economia morale degli stessi, non sono mai mancati. Da parte mia, le domande muovevano sempre da un libro seminale sugli studi sul Sud: Stato e sottosviluppo. A seguire, Luciano Ferrari Bravo e le preziose analisi prodotte da quello straordinario laboratorio che fu il Dipartimento di Scienze Politiche di Padova.

Dopo uno dei seminari settembrini, in autunno, se non sbaglio, sento squillare il telefono. Un numero estero.

“Pronto?”

“Ciao, sono Toni.”

Senza concedermi respiro.

“Dobbiamo scrivere qualcosa. Un pezzo, per lanciare il dibattito su Euronomade. Un articolo che rilanci le inchieste a partire dai territori, dalle città.”

Dopo qualche settimana uscì un articoletto, cui seguirono altri per qualche mese che cercavano di radiografare, appunto, lo stato delle lotte e il contesto economico-sociale e culturale delle città e dei territori.

A maggio del 2014, con Euronomade e lo spazio sociale Zer081, organizzammo all’Orientale un incontro dal tema “Lo spazio europeo: sguardi da Sud per inventare il comune”. Toni ripeté, come fece in altre occasioni, “che il Sud possa ribellarsi e innalzare una bandiera dietro la quale si muovano altre forze è un’opzione che va dimostrata”. Una tesi dal sapore operaista. Del resto l’operaismo nasce nel Nord, dinanzi ai cancelli di Mirafiori, a Sud quel metodo ha funto da “cassetta degli attrezzi”. Quell’approccio che ha riletto il marxismo fianco a fianco all’operaio massa, ha trovato una sua vitalità all’interno delle lotte del proletariato urbano. E difatti è nell’operaio sociale che si può trovare una traduzione dell’operaismo all’altezza della composizione tecnica delle città meridionali – Napoli, in particolare – nel proletariato urbano – soggetto da cui si estrae plusvalore nel ciclo produttivo esteso alla metropoli, ma anche soggetto che comincia a lottare contro la sua condizione di forza lavoro sfruttata, estranea alla produzione di merci e sfruttata dalla tempistica della valorizzazione capitalistica. Che grande libro è Dall’operaio massa all’operaio sociale: un abbecedario dell’operaismo e dell’ontologia negriana.

In realtà, la prospettiva ontologica di Toni è molto più articolata, interseca Machiavelli, Spinoza e Marx, inseguendo temporalità e spazialità delle soggettività in lotta, del lavoro vivo che coopera, vive e produce. Alla mia generazione Toni ha introdotto questi autori: gli ha dato corpo e li ha scongelati dal freddo accademico. Ce li ha restituiti in concetti per leggere il presente e, da qui, le tendenze a venire. Da una parte, la precarizzazione dell’esistente, i dispositivi di cattura e l’estrazione di valore da ogni aspetto della nostra vita, dalla riproduzione sociale all’organizzazione dei tempi di vita; dall’altra, la potenza della vita in comune, cioè, la riappropriazione della potenza della moltitudine, del potere come attività, dei mezzi di produzione sempre più integrati nelle menti e nei corpi del lavoro vivo. L’uno da solo è niente, i molti che in lotta prendono parola esercitano la potenza sotto forma di potere costituente per costruire un essere etico, sociale, ossia, una nuova comunità. Alla mia generazione ha insegnato a lottare dentro, contro e oltre lo stato ci cose presenti.

Un giornalista americano lo interrogò: “qual è la legge ultima dell’essere?”.

Marx lapidario: “La lotta!”.

Il télos è la lotta. Negri ha sempre seguito il soffio vitale della lotta di classe incarnato nella figura del povero, ossia nella condizione della vita produttiva in quanto tale, emblema della produzione biopolitica. Amore del povero è amore del comune ontologicamente produttivo dell’uomo nuovo, del nuovo mondo e della nuova socialità.

È proprio così, Toni. Alla mia generazione l’hai detto in tanti modi. Non ci abbiamo creduto, forse. D’altronde, dei materialisti assai spesso miscredenti come noi difficilmente avrebbero dato peso all’idea di eternità. Eppure ci hai accompagnati, anche in ultimo, verso quanto sarebbe avvenuto, prima o poi. “Ci abbracci l’eternità”, è stato il tuo arrivederci. Ed è proprio così, caro Toni. La mente umana è di altra materia; sub specie aeternitatis, oltre la caducità del corpo, si costituisce e sta nell’eternità mediante il pensiero. Mentre il pensiero si costituisce nelle lotte. “Una vita gioca con la morte e nient’altro” – scriveva Deleuze – mentre quel soffio vitale delle lotte percorre “l’immanenza”.

Grazie Toni. Non ti dimenticherò, e la mia generazione non ti dimenticherà. Stanne certo. Come talpe scaveremo per lasciar affiorare una nuova rivoluzione.

                             

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