Di ETIENNE BALIBAR

La prima cosa che mi ha colpito di lui, oltre alla sua figura incredibilmente giovanile a qualsiasi età, è stato il suo sorriso unico, a volte carnivoro, a volte ironico o pieno di affetto. Mi colpì la prima volta che ci incontrammo, fuori da un seminario al Collège international de Philosophie. Era fuggito dall’Italia grazie a un’elezione che lo aveva temporaneamente liberato dal carcere. Eravamo sconvolti dall’ascesa del reaganismo e del thatcherismo, che avevano mandato in frantumi le illusioni nate dalla vittoria socialista del 1981. Cosa potevamo fare in questo sfacelo? “Ma la rivoluzione!” ci spiegava Toni, raggiante di ottimismo: avanzava attraverso innumerevoli movimenti sociali, uno più inventivo dell’altro. Non sono sicuro di averci creduto davvero, ma ne uscii libero dai miei umori neri, e conquistato per sempre.

Non avevo seguito il famoso seminario sui Grundrisse di Marx, organizzato nel 1978 all’ENS da Yann Moulier-Boutang, che mi avevano detto essere tanto affascinante quanto esoterico. E non sapevo quasi nulla dell’operaismo, di cui era uno delle teste pensanti. Per me Negri era questo teorico e praticante dell’“autonomia operaia”, che lo Stato italiano, incancrenito dalla collusione dell’esercito e dei servizi segreti americani, aveva cercato di farne la mente del terrorismo di estrema sinistra – un’accusa che è crollata come un castello di carte, ma che lo ha mandato dietro le sbarre per anni. Prima e dopo il suo soggiorno, circondato da compagni dalle vite ora più calme ma dalle passioni intatte, fu il pilastro di quella Italia francese, immagine speculare della Francia italiana che avevamo sognato prima del ‘68. Insieme, attorno ad alcune riviste e seminari, avrebbero dato il via a una nuova stagione filosofica e politica. Negri, con le sue provocazioni e i suoi studi, ne sarebbe stato l’ispiratore.

Mi limiterò a darne qualche indicazione ellittica, scegliendo i riferimenti secondo le mie affinità. Spinoza, naturalmente. Dopo il fragore de L’anomalie sauvage (1982 per l’edizione francese, preceduto dalle prefazioni di Gilles Deleuze, Pierre Macherey e Alexandre Matheron) sono arrivati altri saggi all’insegna delle parole sulle quali si interrompe il Trattato politico del solitario di La Haye: «il resto manca». Questo resto, al contrario di altri, Negri non ha provato a ricostruirlo, ma ad inventarlo, seguendo il filo di una teoria della potenza della moltitudine, che fonde la metafisica del desiderio e la politica democratica, contro ogni concezione “trascendentale” del potere, frutto della collusione stretta tra il diritto e lo Stato. Spinoza, l’anti-Hobbes, l’anti-Rousseau, l’anti-Hegel. Il fratello degli insorti napoletani dai quali aveva preso in prestito la figura. Non si è mai smesso di discutere per e contro questo “Spinoza sovversivo”, che ha lasciato il segno nella grande Spinoza-Renaissance contemporanea.

Passiamo al problema della libertà e dell’emancipazione del lavoro, che parte da Spinoza per convergere con Foucault, ma anche con Deleuze, per il profondo vitalismo all’opera nell’opposizione tra biopolitica degli individui e biopotere delle istituzioni. Essa reinscrive all’interno dell’idea stessa di “potere” l’opposizione precedentemente stabilita tra questa e la “potenza”, e autorizza a riprendere, come essenza stessa del processo rivoluzionario, il vecchio tema leninista del “doppio potere”, ma trasformandola da un’opposizione Stato-partito a una opposizione Stato-movimento.

Le fondamenta di questa tematica si trovano già nel libro del 1992 su Il potere costituente (tradotto nel 1997). Per me è uno dei grandi saggi di filosofia politica dell’ultimo mezzo secolo, in dialogo con Schmitt, Arendt, i giuristi repubblicani, sulla base di una genealogia che risale a Machiavelli ed a Harrington. Ogni potere costituito è preceduto da un’insurrezione alla quale cerca di “porre fine” per addomesticare la moltitudine, trovandosi correlativamente a confrontarsi con l’eccesso di potere costituente rispetto alle stesse forme rivoluzionarie di organizzazione che si da.

Torniamo a Marx per concludere. Negri ne è stato un lettore e un continuatore, in un’incredibile combinazione di letteralità e di libertà. Marx oltre Marx (1979) vuol dire portare Marx al di là di sé stesso, e non “confutarlo”. Questo era già il senso delle analisi della “forma-stato” ai tempi dell’operaismo militante. È quello della geniale estrapolazione delle analisi dei Grundrisse su il macchinismo industriale (il general intellect), che assumono tutto il loro significato all’altezza della rivoluzione informatica e del “capitalismo cognitivo”, di cui permettono di cogliere l’ambivalenza dal punto di vista delle trasformazioni del lavoro sociale. Una lotta permanente tra “lavoro morto” e “lavoro vivo”.

Ed è questo, sicuramente, il senso della grande trilogia scritta insieme a Michael Hardt: Impero (2000), Moltitudine (2004), Comune (2010), seguiti da Assemblea (2017), in cui, contro la tradizione del “socialismo scientifico” e la sua problematica della transizione, si costruisce la tesi dagli accenti francescani e lucreziani di un comunismo dell’amore che c’è già, non nei “pori” della società capitalista come aveva scritto Marx ripreso da Althusser, ma nelle resistenze creatrici alla proprietà esclusiva e allo stato di guerra generalizzato del capitalismo “globalizzato”, come lo incarnano le rivolte e gli esperimenti che rinascono continuamente, con i nuovi “comuni” che fanno esistere.

Sempre, quindi, quel famoso ottimismo dell’intelligenza, che capiamo ora non avere niente a che fare con l’illusione di un senso garantito della storia, ma piuttosto con l’articolazione produttiva tra conoscenza e immaginazione, le “due fonti” della politica. Toni ci lascia oggi la forza del suo desiderio e dei suoi concetti. Senza dimenticare il suo sorriso.

Questo articolo è stato pubblicato su Le Monde il 21 dicembre 2023. Foto di copertina di Tano D’Amico, 15 novembre 2003.

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