Di ALISA DEL RE

Caro Toni,

stamani, appena ricevuta la notizia della tua morte (sì chiamiamola così, morte, morte, non decesso, dipartita, fine vita, con quella rudezza di linguaggio che non ti apparteneva, ma che usavi per rendere più evidenti i concetti), sono andata a rivedere le foto del mio matrimonio (febbraio 1972) in cui c’eri tu con Guido Bianchini, Luciano Ferrari Bravo, Sandro Serafini, Paola Meo Negri e tantissimi altri compagni, molti dei quali non ci sono più, e molti hanno subito galera e esilio.

Ci conosciamo dal 1967, quando sono venuta a contestarti a lezione, cacciando te e Luciano perché volevamo occupare la Facoltà. Accettasti di andartene di buon grado, con un pizzico complicità. Già prevedevi i momenti rivoluzionari che si stavano preparando: per queste previsioni (di solito decennali) Guido sbottava ogni volta con affetto e in fondo un po’ di speranza: “il matto (cioè tu, come lui ti chiamava affettuosamente) ha deciso come cambierà il mondo”.

Con te io rimpiango gli anni dell’Istituto di dottrina dello stato, in cui avevi inaugurato un metodo di studio e di ricerca collettiva assolutamente unico e spiazzante rispetto alle rigidità dell’Accademia.

All’alba eravamo a Marghera a dare volantini all’ingresso degli operai al Petrolchimico, la mattinata in Istituto a discutere delle nostre analisi e dei nostri lavori, la sera qualche riunione. Ti ricordi quando andavamo a Marghera in macchina con la Teresa Rampazzi, che ci vedeva poco, con dei nebbioni padani da far paura? Eppure eravamo contagiati dal tuo entusiasmo per la consistenza delle lotte in atto.

Facevamo politica, analizzavamo i cambiamenti del mondo, cambiavamo noi stessi. Non eravamo sempre d’accordo, ma nei rari momenti (Rosolina, 1973) in cui è stato necessario schierarsi, sono stata dalla tua parte.

Hai guardato con curiosità e timore lo svilupparsi del femminismo attorno a te, e forse non ne hai capito subito la portata. Nel 1977 è iniziata la consapevolezza che prima o poi ci avrebbero fatto pagare la felicità delle trasformazioni sociali di cui ci sentivamo protagonisti.

Il primo esilio in Svizzera, il ritorno, la speranza. Ricordo la lettura dei Grundrisse assieme a Maurizio Lazzarato e le nostre frequenti richieste di chiarimenti quando rientravi in Istituto da Milano. E poi gli arresti, l’affetto nelle lettere che mi scrivevi dal carcere, il pensiero dei figli e di coloro che avevamo lasciato fuori.

Ho avuto talvolta la sensazione che ti sentissi un po’ responsabile nei miei confronti, cosa che ho sempre negato anche quando alcuni tentavano di farmi passare per una povera innocente. Che gioia quando ci siamo rivisti a Parigi, dopo che eri riuscito a fuggire dal carcere Italia, in uno slancio vitale difficile ma comprensibile.

Abitavamo entrambi nel 18esimo arrondissement quando mi dicesti che aspettavi Nina. Una vita complicata quella dell’esule, le riunioni a casa di Felix Guattari, un riconoscimento tuo tra i grandi filosofi francesi. Ci si vedeva frequentemente, fino al mio rientro in Italia. Ma anche dopo, io tornavo spesso a Parigi e ogni volta o per una riunione, o semplicemente per un kyr ci si scambiava opinioni politiche e racconti di vita (io racconti di vita, tu giudizi politici chiari e illuminanti).

E poi la decisione che hai preso di tornare in Italia con la speranza di fare poco carcere ed essere infine libero. Non ero d’accordo, lo sai. Avevamo fatto con i compagni un incontro a Firenze e avevamo deciso di consigliarti di non tornare, di non fidarti.

Siamo venuti a Parigi a dirtelo e tu mi hai chiesto semplicemente di costituire un tramite tra te e l’esterno del carcere, cosa che ho rifiutato di fare. E’ in quel momento che ti sei innamorato di Judith? Che colpo di fortuna hai avuto Toni mio! Sicuramente ne eri consapevole, hai avuto vicino a te una persona adorabile, intelligente e autonoma, una delle poche che si è dedicata a te solo per amarti, che si è votata a te senza annullarsi in te.

Dalla tua liberazione ci siamo visti spesso, talvolta per convegni o scuole di politica (la scuola di Passignano), talvolta semplicemente per salutarci con Judith, soprattutto quando ti trovavi a Venezia.

L’ultima volta è stato nel giugno scorso, quando mi hai detto che contavi di vivere almeno ancora tre o quattro anni, e io ti ho creduto perché, in fondo, nelle tue previsioni avevi avuto finora sempre ragione, tranne per le date della rivoluzione e la lunghezza della vita.

Oggi invece sono qui a dirmi che mi avevi mentito, che non mi aspettavo che tu morissi, che mi piaceva pensare che tu fossi eterno, che tu potessi recuperare la salute, come avevi sempre fatto, con la tua energia rivoluzionaria che non badava ai tempi contingenti. Per la prima volta mi sono chiesta come mai un’amicizia sia durata così a lungo, attraversando periodi entusiasmanti e vicende personali e politiche pesanti, con una vita che non si può condensare in alcune righe.

Adesso tutti diranno che sei stato un grande filosofo, che i tuoi scritti sono eccezionali, che sei stato un grande maestro di intere generazioni. E ci saranno anche degli impuniti che ritireranno fuori offese stupide e gratuite sul cattivo maestro.

Io invece ti dico, e lo dico forte e chiaro, che sei stato per me un grande amico e un grande uomo che non si accontentava di niente di meno che cambiare il mondo.

Pubblicato per il manifesto il 16 dicembre 2023.

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